In casa Vegni l’educazione religiosa era binaria.
«Perché devo andare alla Messa quando nessuno di voi ci va?»
«Ci vai perché sei piccina, poi da grande farai come ti pare.» Questa la risposta, non proprio bene articolata.
Fino a dieci anni ho vissuto in una famiglia patriarcale, sei adulti e io bambina, dove il patriarca, nonno Luigi, contava meno del due di briscola. Per vivere tranquillo si rimetteva serenamente a quello che decidevano le due nuore e i suoi figli. Punto. Infatti era un omino pacato, dolce e affettuoso. E molto silenzioso, la bocca occupata a sostenere il sigaro toscano nei giorni festivi e la pipa con il trinciato gli altri giorni.
Anche il precetto “…comunicarsi almeno a Pasqua” veniva disatteso con la scusa che c’era da star dietro ai fornelli e non si poteva perder tempo a infiocchettarsi e andare in chiesa. Un giorno valeva l’altro. E poi l’Amalia si era ‘fatta’ la domenica delle Palme, perché lei all’ulivo benedetto ci teneva e tornava con un fascio che distribuiva a parenti e amici. Quello fresco andava a sostituire, dietro i quadretti a capo del letto, il rametto dell’anno prima che, a toccarlo, si sbriciolava subito.
Le uova da benedire? C’era la Sandrina che, almeno a Pasqua, poteva andare alla messa delle undici con un compito preciso. Le uova, già sbucciate (così la benedizione arrivava meglio) venivano accomodate in una scodella del servito ‘bono’, avvolta in tovagliolo bianco con l’orlo ‘a giorno’ e le cocche annodate facevano da maniglia. Un uovo era segnato da un frammento di guscio: era quello per il babbo; gli piaceva poco cotto, con il tuorlo denso ma non rappreso.
Il cestino m’impicciava ma mi sentivo importante. Le uova venivano deposte vicino all’altare e bisognava aspettare la fine della funzione per riprenderle e andare via. Poi, con il tempo, i cestini semplici e rudimentali vennero man mano sostituiti da veri cestini che contenevano anche uova di cioccolato decorate di zucchero colorato e gingilli vari; i tovaglioli bianchi da una sorta di tovagliette ricamate a mano. Il mio cestino sfigurava.
L’Amalia nell’armadio aveva bellissime tovagliette ‘da tè’ che non venivano mai usate perché il tè non le piaceva e tanto in casa non si ‘riceveva’ mai. Le chiesi di usarle per le uova.
«Checchecchè! Poi va lavata e stirata.» I tovaglioli bianchi si usavano tutti i giorni e andavano in varechina.
Poi la famiglia patriarcale, ormai senza patriarca, si dissolse in due nuclei distinti; cambiammo casa e le uova venivano in tavola a Pasqua senza benedizione. Solo per tradizione. Tanto il Signore vede e provvede…
La casa divenne Vegni-Innocenti e l’Amalia trascorse con noi gli ultimi anni della sua vita. Era diventata una vecchietta petulante e m’impicciava in cucina annusando l’aria e scoperchiando pentole senza neanche provare a rimestarle.
«Ma perché non vai alla Messa, mammina?» Almeno una volta l’anno…
Per darle una motivazione concreta le affibbiavo un cestino con le uova assodate ancora da sgusciare.
Brontolando si avviava verso la chiesa vicina, seccata ma vestita bene. Le piaceva vestirsi bene.
Tornava sempre scocciata. «Oh, come l’ha fatta lunga, quel prete! Unne potevo più. Se non c’avevo le uova, tornavo a casa subito.»
La benedizione, si sa, arriva alla fine.
Ora, solo per tradizione perché un uovo sodo ingerito a inizio pranzo m’ingolfa inutilmente e poi devo pensare anche al colesterolo, faccio bollire due uova, le taglio a spicchi e le infilo, armonicamente, nel vassoio degli antipasti.
Che dire? Buona Pasqua e pace in terra agli uomini di buona volontà. Anche se, mi sembra, ne son rimasti pochi.
Pasqua in casa Vegni
FONTE Facebook Sandra Vegni 20-4-25