(Parole: Alla ricerca del senso perduto)
E pensare che c’era il pensiero è il titolo di un noto spettacolo di Giorgio Gaber degli anni ’90 sul tema della crisi del pensiero nella società odierna. Ne descriveva la parabola discendente nel passaggio da collettivo a massificato, da individuale a individualista, da consapevole a ignaro e inconsistente. Un’analisi tanto centrata e profetica come era difficile immaginare e temere. È forse utile riflettere che il pensiero collettivo, a differenza di quello massificato, implica consapevolezza individuale e plurale e capacità di elaborare una visione organica della società in senso lato. Il pensiero di massa – o non pensiero – al contrario, risponde ai criteri dei diktat mediatici per conseguire scopi abilmente mistificati e generalmente ignorati. Il pensiero include – come ci insegna il logos – la parola. Pensiero e parola formano una unità inscindibile, astratta e concreta , invisibile e visibile, sostanziale e formale. L’uno non esiste senza l’altra. Se il pensiero viene meno, fatalmente trascina con sé anche la parola che non gli può sopravvivere se non come suono disconnesso, incomprensibile, fuorviante. È quello a cui stiamo assistendo nell’indifferenza generale: la scissione del LOGOS. La qualità delle parole usate è inversamente proporzionale alla loro quantità: meno si pensa più si parla in modo piatto, generico, conformista. Prevale lo stile sloganistico, buono per tutte le occasioni, per dire tutto e niente. Al logos dobbiamo la nostra appartenenza al genere umano (Don Milani). Gli dobbiamo la nostra evoluzione morale e civile , la cultura, la democrazia, il superamento di conflitti insanabili, la ricerca instancabile della verità … Le parole come logos, usate cioè in senso dialettico, sono temute perché hanno il potere di fare e disfare i mondi senza darli mai per scontati. Le parole pensate e pensanti, parlano alle menti, alle coscienze, aprono finestre, indicano orizzonti, costruiscono ponti, ribaltano ordini superati per crearne di nuovi … Per questo sono combattute, oserei dire, perseguitate. Ci stiamo avviando lungo una china che, dal vero, passando per il falso, ci spinge verso il nulla. Assistiamo proprio in questi giorni alla dichiarazione di guerra alle parole delle comunità gay e al ripristino di quelle riferite alle disabilità da parte del presidente argentino Milei con intenti chiaramente oltraggiosi. Stigmatizzanti, o ambigue … Le parole sono ormai contenitori deformabili e adattabili a ricevere tutte le possibili esternazioni prive di senso e di valore. O meglio, il senso che viene loro attribuito è provvisorio, arbitrario, intercambiabile a seconda delle circostanze e delle convenienze: parole usa e getta del tutto conformi al consumismo imperante. Il fenomeno è quasi surreale: a fronte del rischio estinzione delle parole pensate proliferano, infestanti come i virus pandemici, le parole gettate al vento, prive di senso, come esche per le malcapitate prede. Non per dialogare, ma per prevaricare, non per convincere, ma per imbonire, non per chiarire, ma per confondere, non per rispettare, ma per offendere. Se la parola significante perde il suo significato e il suo potere di interlocuzione, cosa ci resta? Quali armi abbiamo per lottare contro l’indifferenza, l’ignoranza, la violenza, l’ingiustizia? Di quali mezzi possiamo disporre per arrivare alla coscienza degli esseri umani se gli esseri umani non hanno più coscienza? Cosa possiamo inventarci per rivolgerci a Trump e a tutti gli oligarchi assetati di potere totalmente refrattari al pensiero? Se non c’è condivisione sul codice d’accesso, l’accesso è impossibile; si precipita rovinosamente dal logos al caos! È ciò che sta accadendo. Se si parla di democrazia , ma ognuno degli interlocutori la intende a modo suo, poche sono le possibilità di dialogare. Se parlando di libertà, c’è chi la intende come libero arbitrio che non prevede limiti di sorta e chi invece ne riconosce i limiti posti dal diritto altrui, non c’è dialogo possibile. Democrazia, libertà, diritti, pace, guerra … le parole sono le stesse, ma i significati sono opposti a seconda di chi le usa; sono incompatibili fra loro. La stessa incompatibilità che c’è fra la forza e la ragione. C’è chi parla di ragione, ma intende forza – ragione della forza – e chi parla di ragione come logos, come capacità di accedere ad una verità mediante il ragionamento basato su capisaldi etici, come quelli della nostra Costituzione dove le parole hanno un significato inequivocabile … per chi non ha interesse ad equivocarlo! Se la forza diventa ragione, la ragione cessa di esistere sia come valore che come parola pensata e pensante. È la morte della parola che ci rende afoni, disarmati, soli, privi d’identità. Un lutto difficile da elaborare. Chi siamo, in che mondo viviamo, quali sono i nostri riferimenti, i nostri ideali, il nostro senso? La nostra facoltà più preziosa, il pensiero, che ci permette di comprendere, elaborare, creare, comunicare usando la parola, a volte per colpire, altre per aiutare, ma sempre all’interno di un codice condiviso, sta diventando irrilevante e con essa quanti vi si riconoscono . La nostra forza è diventata debolezza; siamo dei sansoni a cui hanno tagliato i capelli. Le parole vuote fluttuano disordinatamente nello spazio, indistinguibili, incapaci di farsi “carne”, di consistere, d’interpretare la realtà nel suo essere e nel suo divenire. Parole anonime, sbatacchiate qua e là, costrette ad indossare abiti prestati dai simulatori di professione per capovolgere il senso delle cose e seminare il caos propiziatore di denaro e di potere. Se il potere non è più appannaggio degli esseri pensanti, ma di coloro che usano i bicipiti, non ci resta che usare i bicipiti – se li abbiamo – rimettendoci la nostra identità umana e culturale. Si può vincere perdendo se stessi? Ne vale la pena? In principio era il verbo … E il pensiero? Non pervenuto!
Anna Maria Guideri 17-03-2025