Qiao, Liang. L’ arco dell’impero, 2021

Fabio Mini : Il Fatto Quotidiano del 16 aprile 2022

Mini Biden e la dittatura del dollaro

Per capire la guerra finanziaria che abbiamo (anche noi italiani) dichiarato alla Russia e le sue conseguenze bisogna leggere un libro scritto dal generale cinese Qiao Liang nel 2015 e ora in Italia nell’edizione della Libreria editrice goriziana (LEG) dal titolo L’arco dell’impero, con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità.

Poteva apparire profetico sette anni fa ma oggi è cronaca e presto sarà Storia. Vi si legge la strabiliante invenzione della finanza Usa che riesce a staccare la moneta dalla realtà economica e da qualsiasi valore oggettivo di riferimento e convertibilità.

La moneta della fede in Dio rappresentava la speranza in un Nuovo mondo pieno di promesse e nella volontà di realizzarle. Con la tenacia e il lavoro si è prodotta ricchezza e la moneta convertibile in oro ne era il pegno, ma ogni nazione faceva a modo suo e gli scambi internazionali erano difficoltosi.

Nel 1944, a Bretton Woods, Stati Uniti e Gran Bretagna ritengono necessario stabilizzare il mercato e individuare una moneta (dollaro o sterlina) come riferimento per tutti gli scambi monetari, parzialmente convertibile in oro.

Vince il dollaro: da quel momento l’oro e il dollaro sarebbero stati accettati in modo intercambiabile come riserve globali. I dollari sarebbero stati rimborsabili in oro su richiesta a 35 dollari l’oncia (oggi vale 1.960 dollari).

I tassi di cambio delle altre valute furono fissati rispetto al dollaro e per l’America e il mondo si inaugura l’era del “in Gold we trust”. Dove il Gold è quello americano di Fort Knox. Nel 1971, con due guerre non vinte (Corea e Vietnam) e la minaccia di molti Paesi (Francia in testa) di chiedere oro in cambio dei dollari, il presidente Nixon decide di eliminare l’ancoraggio del dollaro all’oro, del quale sta esaurendo le scorte. Continua però a imporlo come moneta di riferimento per gli scambi internazionali.

La moneta non ha più alcuna garanzia concreta se non l’economia della nazione e la fiducia degli altri. La fede nei dollari deve essere cieca: “in Bucks we trust”.

Liberi dai vincoli di Bretton Woods, gli Usa stamparono enormi quantità di moneta e il valore del dollaro crollò rispetto alle altre valute. Per sostenerlo Nixon e Kissinger fecero un accordo con l’Arabia Saudita e i Paesi dell’Opec secondo il quale essi avrebbero venduto petrolio solo in dollari, e i dollari sarebbero stati depositati nelle banche di Wall Street e della City di Londra. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero difeso militarmente i Paesi Opec.

Il ricercatore economico William Engdahl presenta anche le prove della promessa che il prezzo del petrolio sarebbe stato quadruplicato. Infatti, una crisi petrolifera collegata a una breve guerra mediorientale fece quadruplicare il prezzo del petrolio, e l’accordo Opec fu concluso nel 1974.

L’accordo rimase in vigore fino al 2000, quando Saddam Hussein lo infranse vendendo il petrolio iracheno in euro. Il presidente libico Gheddafi seguì l’esempio. Entrambi i presidenti finirono assassinati, e i loro Paesi furono distrutti dalla guerra.

Il ricercatore americano-canadese Matthew Ehret osserva: “Non dobbiamo dimenticare che l’alleanza Sudan-Libia-Egitto sotto la leadership combinata di Mubarak, Gheddafi e Bashir, si era mossa per stabilire un nuovo sistema finanziario sostenuto dall’oro al di fuori del Fmi/Banca Mondiale per finanziare lo sviluppo su larga scala in Africa. Questo programma è stato condotto al fallimento, dalla distruzione della Libia guidata dalla Nato, dalla spartizione del Sudan e dal cambio di regime in Egitto”.

Senza tali interventi “il mondo avrebbe visto l’emergere di un grande blocco regionale di Stati africani che modellano i propri destini al di fuori del gioco truccato della finanza controllata dagli angloamericani per la prima volta nella storia”. Per l’Europa i fallimenti africani sono una benedizione.

Ma il ciclo della contestazione del monopolio finanziario è appena iniziato. La Cina che ha fatto dell’Africa un suo polo di attrazione, deve sottostare agli umori degli Usa in termini commerciali e militari. Ma la Russia, a partire dal 2008 (questione Georgia) è bersaglio di sanzioni sempre più pesanti.

All’inizio di dicembre 2021, il Xi Jinping e Vladimir Putin hanno sottolineato l’esigenza di accelerare il processo di formazione di strutture finanziarie indipendenti al servizio degli scambi di Russia e Cina.

Con la guerra in Ucraina, il distacco dal dollaro per la Russia è divenuta questione di sopravvivenza politica. Le sanzioni provocano la prima sfida da parte di una grande potenza al petrodollaro e al sistema occidentale della finanza.

Le misure occidentali hanno tra l’altro compreso il congelamento di quasi la metà dei 640 miliardi di dollari della Banca centrale russa in riserve finanziarie. E la Cina si rende conto di essere nel mirino finanziario prima ancora di quello dei cannoni e accelera il processo di distacco.

Venerdì 11 marzo l’Unione economica eurasiatica (Eaeu) e la Cina hanno concordato di progettare il meccanismo per un sistema monetario e finanziario internazionale indipendente.

L’Eaeu – composta da Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia – sta facendo accordi di libero scambio con altre nazioni eurasiatiche e si sta progressivamente interconnettendo con la Belt and Road Initiative (BRI) cinese.

La fiducia riposta nel dollaro statunitense come valuta di riserva globale è incrinata e le ritorsioni sono prevedibili e gravissime. Putin, il 16 marzo, afferma che Usa e Ue sono venuti meno agli obblighi, e che il congelamento delle riserve della Russia segna la fine dell’affidabilità dei cosiddetti asset di prima classe che comprendono le istituzioni a garanzia dei maggiori strumenti finanziari e monetari.

La confisca dei patrimoni e il congelamento dei depositi e investimenti all’estero operata contro i russi preoccupa tutto il mondo finanziario. È un “furto” che può capitare a tutti, basta entrare in una lista nera redatta dagli americani.

Putin non si limita a rilanciare le accuse, ma impartisce direttive chiare per le misure strutturali e infrastrutturali da lanciare all’interno del Paese. Il 23 marzo, Putin annuncia che il gas naturale della Russia sarà venduto a “Paesi ostili” solo in rubli russi (o in oro), piuttosto che in euro o dollari.

Quarantotto nazioni sono contate dalla Russia come “ostili”, tra cui Usa, Gran Bretagna, Ucraina, Svizzera, Corea del Sud, Singapore, Norvegia, Canada, Giappone e Italia.

L’economista Michael Hudson ha notato che le sanzioni economiche e finanziarie “stanno costringendo la Russia a fare ciò che è stata riluttante a fare da sola: ridurre la dipendenza dalle importazioni e sviluppare le proprie industrie e infrastrutture“.

Proprio il piano che avrebbe voluto lanciare Obama per sanare la perdita di capacità manifatturiera causata da decenni di delocalizzazione e dipendenza dal commercio estero. Progetto, secondo Qiao, ormai tardivo e che comunque non porterà a diminuire il debito e relativa dipendenza commerciale.

Ci sono però le guerre che possono bilanciare le carenze strutturali interne e non servono solo a stabilire principi. Le “guerre senza fine” del Pentagono – scrive Qiao – sono in realtà progettate per garantire “che non solo i dollari fluiscano senza problemi fuori dal Paese (sotto forma di cessioni finanziarie e di crediti) ma anche che il capitale in movimento nel mondo torni negli Stati Uniti”.

Questo meccanismo, che ha straordinariamente arricchito l’America negli ultimi 40 anni (raddoppio del Pil) in buona parte a spese del resto del mondo, è l’aspettativa più concreta della guerra per procura alla Russia.

La questione del gas ha aperto un altro fronte di guerra e ha oscurato la questione del dollaro. Ma la ragione dell’oscuramento non è un effetto del gas.

Nel libro Qiao cita l’episodio di Alan Greenspan che all’atto di assumere la direzione della Federal Reserve disse ai suoi nuovi dipendenti: “Qui alla Fed potete parlare di tutto, ma non del dollaro”. Di fatto è un tabù. Che sta per essere infranto.

L’ arco dell’impero : con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità / Qiao Liang ; a cura del Generale Fabio Mini. Gorizia : LEG, 2021. [ISBN] : 978-88-6102-722-0

COSI’VICINE, COSI’ LONTANE … (amg)

(la guerra e la TV)

Ogni giorno appare più evidente la discrasia venutasi a creare fra i toni educati, civili e raziocinanti dei salotti televisivi dove si discute dell’attuale guerra in Ucraina e le immagini agghiaccianti che ci giungono dai luoghi del massacro. Si viene colti da un senso di smarrimento, di incredulità come se fra i dibattiti televisivi e ciò che accade in Ucraina non ci fosse uno stretto rapporto; come se non si trattasse della stessa materia, della stessa tragedia. Mai, il parlare della guerra e la guerra in carne e ossa sono apparse così fuori sincrono, così lontane tra loro. Forse perché gli altri conflitti disseminati nel mondo non hanno goduto della stessa attenzione dei media, forse perché questa guerra ci sta col fiato sul collo , forse perché davvero non abbiamo le parole per dirlo. Ci vorrebbe il linguaggio dei poeti per dar voce alla sofferenza cosmica che ogni guerra porta con sé, per strappare all’indifferenza chi non ne è direttamente coinvolto. Un linguaggio alto e sintonico che oltrepassi i limiti della razionalità asettica e ci faccia vibrare all’unisono con chi è così duramente colpito. Questo flagello ci coglie emotivamente impreparati ed in parte, distaccati, incapaci di renderci conto fino in fondo che ciò che vediamo sullo schermo televisivo non è una fiction e ci riguarda molto da vicino. I toni asettici ci rassicurano. Se della guerra si può parlare con tanto self-control soppesando equamente i pro e i contro, anche se non vengono taciuti i rischi a cui stiamo andando incontro, ciò può significare che, tutto sommato, la situazione è sotto controllo. Un controllo che viene puntualmente smentito dalle immagini delle città distrutte, dei corpi abbandonati per le strade, dei missili e dei carri armati che si spartiscono brutalmente il cielo e la terra. Fra l’ordine formale dei dibattiti e il disordine reale dei combattimenti sembra non esserci un vero contatto. Questa falsa vicinanza, o meglio, questa sostanziale lontananza fra il dire e l’accadere fotografa l’incolmabile distanza che c’è fra chi la guerra la subisce e chi ne parla dal suo confortevole salotto televisivo. Certamente il distacco emotivo è necessario per poter dipanare una matassa tanto ingarbugliata eppure, la dismisura di questo evento bellico richiederebbe, oltre alla lucidità dell’analisi politica e storica, il pathos che non siamo più in grado di provare stando al riparo della nostra collaudata estraneità al dolore umano. In Europa, un così lungo periodo di pace riempito in gran parte da un eccesso di consumi materiali, svuotato dei valori culturali ed etici, frastornato dall’invasione della tecnologia digitale, è culminato nella diminuzione dell’umano sentire, in una vera e propria anestesia dell’anima. Se il percorso della storia, come sostengono gli studiosi, è lineare perché indietro non si torna, forse allora è il caso di dire che indietro non si torna perché non siamo mai andati avanti! La natura umana sembra obbedire alla legge astrale del moto apparente di alcuni corpi celesti, in perfetta sintonia con il principio gattopardesco del tutto cambia perché niente cambi. L’essere umano è sempre quello della pietra e della fionda e paga la sua fortunata conquista del benessere materiale e della lunga pace – poco meditata – di questi anni, con una progressiva disumanizzazione e con il ritorno alla barbarie. Si vive con un vago senso di vuoto attutito da una overdose di riempitivi fasulli per simulare una pienezza che non c’è. Percepiamo il nostro status attuale come l’unico possibile, come il solo paradigma del tutto, e non invece, del nostro niente.

Anna Maria Guideri, 16-04-2022

EBBENE SÌ, SONO PUTINIANO

E ADESSO VI SPIEGO PERCHÈ

ANTONIO MASSARI (“Il fatto quotidiano” del 13 aprile 2022.

Mi autodenuncio: sono putiniano.

Non sapevo di esserlo, fino al 24 febbraio scorso. L’ho scoperto giorno dopo giorno e ogni giorno che passa lo sono sempre di più.

Sono putiniano perché sulle scelte legate a questa guerra ho molti dubbi. E l’essere dubbioso, ho scoperto, è il tratto più saliente del putiniano.

Sono putiniano perché sono convinto che sia giusto aiutare gli ucraini a difendersi dall’invasione russa eppure, nello stesso tempo, non posso negare l’evidenza: più armi inviamo e più vittime dovremo contare –civili e non –e più in là dovremo spostare la data della pace. Questo dubbio ancora non riesco a scioglierlo ma devo fare in fretta perché se no qualcuno mi dice: “Ma secondo te si ferma la guerra con le parole? Soluzione: quale sarebbe la tua soluzione? ”.

Sono putiniano proprio perché non ho una soluzione immediata.

Sono putiniano perché, se sei in Ucraina, devi combattere con un’arma in mano, se invece sei qui, devi combattere con la tua personale soluzione immediata.

Sono putiniano perché la Nato dice: “gli ucraini possono vincere. Ma la guerra potrebbe durare anni”. Però quello senza la risposta immediata sarei io.

Sono putiniano perché non farò mai la lista dei giornalisti anti-putiniani né in lingua italiana né in lingua inglese. Figurarsi in lingua tedesca.

Sono putiniano perché sì, lo ammetto, una volta mi sono chiesto se l’Occidente può aver avuto qualche responsabilità in questa tragedia. Una volta mi sono addirittura chiesto a cosa serva la diplomazia europea se, dal 2014 a oggi, non siamo stati in grado di imbastire una soluzione che evitasse questa guerra.

Sono putiniano perché non capisco: come mai, per tutte le altre guerre in corso nel mondo, non inviamo armi e non muoviamo un dito?

Sono putiniano perché “quella all’Ucraina è una guerra ai valori dell’Occidente” ma i curdi, dopo che hanno combattuto l’Isis alle porte dell’Europa, li abbiamo lasciati soli con la Turchia (Nato) e il loro destino.

Sono putiniano perché abbiamo sanzionato la Russia, sì, ma con l’Egitto, che ha ucciso e torturato Giulio Regeni e sbattuto in cella Patrick Zaki, continuiamo a fare soldi vendendo le nostre armi. E acquisteremo il suo gas.

Sono putiniano perché nel 2021 abbiamo contato 1.872 migranti morti nel Mediterraneo: fuggono da guerre e miseria e se non muoiono in mare, pur di non vederli, li lasciamo marcire e torturare nei lager libici.

Sono putiniano perché per me ogni profugo va accolto. Da ovunque fugga. Perché una donna ucraina violentata da un russo non mi fa più pena di una migrante stuprata da un libico. E un bambino annegato in mare non mi addolora meno di un bambino ucciso da una bomba a Mariupol.

Sono putiniano perché dal 24 febbraio, prima di esprimere qualsivoglia pensiero, ti senti sempre in dovere di premettere l’ovvio: “i russi sono gli aggressori e gli ucraini gli aggrediti”. Ed è talmente ovvio che, se lo premetto, oltre a essere putiniano mi sento pure idiota.

Sono putiniano perché penso che la propaganda possa annidarsi ovunque, non solo nella Russia di Putin, quindi prendo con le pinze non solo le dichiarazioni di Zelensky ma pure quelle del Papa e del Dalai Lama.

Sono putiniano perché penso che per ogni “crimine di guerra” sia necessaria un’inchiesta indipendente che individui il “criminale di guerra” e poi lo condanni. E per quanto sia (sinceramente) convinto dalle immagini, dalla logica e dalle emozioni, di sapere già adesso chi sia il colpevole, devo ribadire a me stesso: immagini, logica ed emozioni non devono bastare.

Sono putiniano perché anche un’inchiesta giornalistica deve essere indipendente e quindi: prima di dare risposte un giornalista ha sempre il dovere di dubitare.

Sono putiniano perché quando gli Usa evocano la Corte penale internazionale sui crimini di guerra (alla quale non aderiscono) per condannare il presidente della Russia (che non aderisce) sui crimini commessi in Ucraina (che non aderisce) mi sento leggermente preso per il culo.

Sono putiniano perché sono certo che, senza un terzo super partes, non vi potrà essere né giustizia né pace.

Sono putiniano perché in questo momento (a parte il Papa) non vedo alcun terzo super partes che si muova per la pace.

Sono putiniano perché se scrivo tutto questo è chiaro che sono putiniano. Eppure credevo fosse Putin – come ogni autocrate – quello allergico ai dubbi e alle domande di chi sottolinea le ipocrisie del “pensiero unico”.

Ma non avevo ancora visto gli autorevoli antiputiniani. Ora che li ho visti mi hanno convinto: il filoputiniano sono io. Immagino che Putin ricambierà il mio prezioso aiuto con rubli, condizionatori a batteria o magari un lettone dei suoi (nel senso del giaciglio, non del cittadino della Lettonia, sperando non invada pure quella).

Nel caso, vi farò sapere.