Virgilio a Dante

Dalla Serie: Missive impossibili di Sandra Vegni

Lettera di Publio Virgilio Marone (poeta latino)
a Dante Alighieri (poeta fiorenzino)

Limbo, 21 aprilante 1311

Devoto amico,

compagno di un tristo e speranzevole viaggio
che mai scordar potrai, io credo, voci lacrimevoli qui giunte mi dicono che tu ti apprestasti, e ancor continui, a vergar versi belli sì, assai, tali da sfidar secoli a venire.
Quelle voci raccontano di te intento alla scrittura del tormentato mondo degli afflitti anelanti ad esaudir la pena e risalir l’empireo, che il tristo vagabondar nei gironi dei peccator senza speme e perdono tu l’hai concluso già. E quanto ardito e bello!
Ma, amico mio sodale di versi eterni, giusto io ti scrivo giacché – per belle e intense sian le tue parole – qualcuno qui, di quelli nominati che fra i tanti negli Inferi incontrasti, mostrar mi pare che non le apprezzi.

‘Privatezza’ è la parola che risuona e scivola di girone in giron, di bocca in bocca. Tu la violasti, dicono, che nessuno, nel mondo dei viventi supporre forse potea, ma certezza non avea del lor destino.
Ugolino, fra questi, dicea che quanto avvenne nelle segrete stanze, segreto dovea restar e che poi tu non scrivesti, o Dante, che il fiero pasto – per quanto infame – meno infamante fu poiché il cibo lui trasse da carni morte. Attenuante, questa, che debole a me non par, se mi permetto.

Francesca, poi, non si dà pace: è ver, donna straziata e bella tu la descrivi, bella sì che pittori inverecondi nuda si permetton di rappresentar la sua figura. Che nuda, mai, alcun la vide! Tu non conosci, o Dante, gli usi del tempo tuo? Mai uomo vide il sen della sua sposa e quantomeno la rosea carne di cui si ciba fra le vesti impacciate! E le attenuanti? Pur lei si appella alla bruttezza che imposta le fu di Gianciotto … e se delitto d’onor non fosse stato? Se di politica si fosse trattato? Lei tal proposito insinua, poveretta, e minaccia di palesar la tua superficial contezza.

Bonifazio, a far che … te lo dico? Immaginar tu puoi quanto si lagni e il mite Celestin, al fianco suo si mette e predice che gran rifiuti ancor verranno senza che tanto clamor si alzi né – questo par certo – condanna infernale.
Ma è la citta Fiorenza che più, al mio sentir, mi ambascia. Per bocca di Ciacco, nome abitual di porco, tu l’hai nomata ‘piena d’invidia che già trabocca il sacco’. Non dell’invidia, se nel tuo pensier io fossi, mi cruccerei, ma dell’azion collettiva che presso i giudici potrebbe intentarti ella se – i politicanti tu li conosci – il tuo esilio non le sembrasse bastevole all’infamazion del suo nome.

Per ciò io ti chiedo, o Dante: sicuro sei che le tue parole mal non t’incoglieranno anco in futuro? Tanti son quelli che tu scontentasti. Diffamati, van dicendo, i tristanzuoli. Che le pene dell’Inferno, sia pur meritate, nessun resero men pronto a perdonar i vivi.

Pensaci, o caro mio poeta e amico: del tuo viaggio non sarà forse meglio tacer parola?
E agli improperi di generazion future di studiosi fanciulli? Ci pensi tu? A me vuoi unirti nelle incresciose offese?
Io ti avvisai, che mai vorrei, domani, tu mi rimproverassi per aver taciuto miti consigli.
Ciò che vorrai farai, io temo, conoscendo l’animo tuo.

Virgilio, poeta e guida