I FENICI, BARBARA GENTE…

Michele Feo da Facebook

Parlo a voi, due amici che tali siete da lunga pezza per condivisione di ideali e battaglie, e siete Salvatore Rigione e Maria Valeria Della Mea. Avete citato entrambi il discorso che nel primo dell’Eneide, nella Cartagine in costruzione, alla fenicia Didone fa in nome dei naufraghi troiani il più vecchio di loro, Ilioneo, mentre altri troiani fra cui Enea assistono nella sala del trono nascosti da provvida nube sparsa intorno a loro dalla dea Venere, madre e garante dei fati cui il figlio è predestinato. Ilioneo è abile, anche dicendo il vero. Descrive la loro condizione di esuli dalla patria in fiamme e dice a chiare lettere che non sono venuti a spogliare le case di libici. E pure i libici negano loro lo sbarco, comportandosi da «barbara patria». Conclude minacciando, per quei comportamenti disumani, la vendetta su di loro degli dei, e vantando di avere un capo, Enea, di cui nessuno in guerra e in pace fu più giusto e devoto.

Cari amici, siete stati bravi nel trovare la citazione, ma andò proprio così? O Ilioneo ha intessuto un’orazione avvocatesca che dice solo una parte di verità? Non è vero che Enea sia disperso fra le onde. Egli è lì presente, se ne sta zitto, aspettando lo sciogliersi degli eventi. E quando Didone generosamente dice di accoglierli, lei che come loro è un’esule, una profuga dalla sua patria, e dà ordini di offrire agli stranieri feste e pranzi sontuosi, Enea esce dalla nube e si presenta magicamente sulla scena bello come un dio con mossa istrionesca non del tutto degna di Virgilio: «Avete davanti colui che cercate, son io Enea Troiano…». Talché la povera Didone, se era ben disposta, ora viene travolta, introduce l’eroe nella reggia, fa entrare tutti quei disperati avventurieri e, con mossa degna di Viridiana di Buñuel, li mette a tavola, non sapendo tante cose che la fama non le aveva trasmesso, che l’eroe puro sarebbe stato il futuro fondatore sulla sponda opposta del mare dello Stato che avrebbe distrutto il suo, che nella notte di Troia per strada aveva perso o sperso la moglie Creusa, che molte voci sussurravano che non i greci avevano vinto la guerra, ma che lui Enea insieme con un altro troiano, Antenore, avevano venduto la patria ai nemici e poi erano scappati via con navi appositamente nascoste in un porto vicino. Non sapeva la povera Didone che l’eroe, dopo averla catturata entro le sue spire di serpente, l’avrebbe abbandonata con metodo maschilista, giustificandosi con l’obbligo divino di perseguire la propria areté, ignorando uomini, donne, sentimenti e diritti incontrati per strada; e quell’areté altro non era che porre le basi sicure per l’edificazione della più grande opera divina e umana, cioè Roma e l’Impero, da fare poi felici i mediocri protagonisti della storia provvidenzialista, la gens Iulia, a cominciare da quel piccolo Ottaviano Augusto che per volere del destino sconfisse l’universalismo politico di una donna geniale, che a fianco aveva un vero generale.

Ma Virgilio su tutto questo non riuscì a completare la tela con l’affresco di tutte le morti e tutti i colori, pur avvertendo che, mentre Elisa-Didone saliva sulla pira, la sua coscienza di poeta super partes si scioglieva e si perdeva la sua irrefragabile chiliastica e provvidenziale romanità fra le lacrime dei vinti della storia. Ma una parte ancor più crudele di questa tragedia sbagliata che si chiamò «pro bono malum» il buono e fragile Parthenias riuscì a mettere in versi, e fu la verità cruda del viaggio di Enea verso l’Italia, quella verità di aggressione a un popolo italico che nulla ai troiani aveva fatto, l’espropriazione con le armi di Turno, il re legittimo di quelle terre laziali, finanche la sua uccisione con le proprie mani e il presunto diritto di portargli via la promessa sposa. Di quante violenze, di quante menzogne, di quante vicende false è costruita la verità storica dei vincitori, e come è insidiosa la verità di una citazione di parte estratta da un contesto più ampio. È scritto nella Bibbia che Dio non esiste, ma l’affermazione è preceduta da una piccola frase che avverte: “Dice lo stolto”. Di Didone, donna innamorata e suicida per amore, avrebbe avuto pietà qualche tardo scrittore africano, ma anche Agostino di Tagaste e, dopo molti secoli, un italiano privo di sentimenti, l’Aretin poeta tosco. Ma anche lo stesso Virgilio rese onore alla propria dolente umanità, quando fece scendere Enea negli inferi e lì gli fece incontrare la povera regina e gli fece rivolgere la parola alla donna, ma lei non alzò gli occhi verso di lui, si strinse al suo marito ritrovato fra le ombre e con lui entrò a nascondersi in un boschetto. Troppo tardi pianse l’eroe puro, e solo per dovere di scena.

Per concludere, cari amici, nulla contro il vostro empito di amore e carità, solo una esortazione sommessa alla prudenza nei giudizi e a guardare il passato con occhio critico, scettico e consapevole che quanto piace al mondo qualche volta è lezione di vita, qualche volta è breve sogno, più spesso è atroce e dolce inganno. L’angelo disse a Giuseppe dormiente che si facesse forte col silenzio.

Michele Feo 5.3.23, h. 11:30.

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