NOMI SOPRANNOMI E SOTTONOMI

Da molti anni anni seguo un corso di scrittura con lo scrittore e giornalista Enzo Fileno Carabba il quale tende a darci, come compito a casa, temi di solito assurdi. Quello di questa settimana è SOPRANNOMI E SOTTONOMI. Stamani mi son svegliata con il testo in testa (buono questo calembour) e mi è venuto di getto. Mi sono divertita e ve lo propongo
Sandra Vegni (da facebook)

Il primo giorno di scuola la maestra Micheli, usa a chiamar per nome le sue bambine, rimase sconcertata a trovarsi davanti tre piccole di nome Sandra: una robusta e cicciottella, una minuta e timida, l’ultima una biondina dagli occhi corrucciati.
La Micheli si stropicciò le mani, aggrottò le labbra e infine un sorriso le stemperò la fronte corrucciata. Aveva trovato la soluzione: Sandrona, Sandra e Sandrina. Batté le mani e le tre bambine tornarono a sedersi, compunte. Non so come la prese Sandrona, io mi strinsi nelle spalle, il mio ‘sottonome’ Sandrina non era poi male. Non sono cresciuta molto e – temo che in quegli anni a cavallo dell’anno 50 il mio nome andasse di moda – mi sono sempre trovata, in mezzo agli amici o al Liceo, con altre omonime. Sandrina ero e Sandrina son rimasta anche ora che ho passato il peso limite per essere definita ‘ina’. E non ho mai pensato che il mio fosse un ‘sottonome’ e neanche che quello della Sandrona fosse un ‘soprannome’, lo definirei piuttosto un ‘sopra-nome’. Anche a lei è rimasto appiccicato, purtroppo, visto che ci siamo mosse insieme per decenni.
«Parlo con la Signora Thatcher?» disse al telefono il Deviatore Capo Morelli in risposta al mio «Pronto!» e così, in una mattina dove le nuvole si rincorrevano nel cielo, incuranti dei treni da formare e dei manovratori incappucciati nelle pesanti cerate, scoprii come venivo chiamata da tutti i 180 colleghi della Stazione di Rifredi nella quale mi agitavo, unica rappresentante del genere femminile, da quando avevo deciso che agitarsi fosse meglio che nascondersi.
I colleghi di stanza mi osservavano in silenzio, di sottecchi, in attesa della reazione. Loro lo conoscevano, i vigliacchi, il mio soprannome! Scoppiai a ridere e loro con me. Correvano gli anni 80 e Margaret Thatcher imperversava nel Regno Unito. Non che la sua politica mi piacesse ma il soprannome era lusinghiero e, ad essere sincera, mi si adattava – almeno per quanto conducevo, con piglio deciso e risoluto, la postazione dei turni di servizio – e lo accettai di buon grado.
Ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, i ferrovieri in pensione che mi incontrano mi salutano dicendo: «Oh, ecco la Thatcher! Ma sei rimasta proprio uguale…» Non è vero e lo sappiamo, però fa piacere sentirselo dire.
Non preparo più da decenni i turni di servizio e neanche litigo più con i contribuenti che cercavano di imbrogliarmi all’Agenzia delle Entrate. Loro non lo sapevano ma quando ero davvero arrabbiata lasciavo uscire la Thatcher assopita che mi alberga dentro. L’ho fatta uscire spesso anche quando facevo gli Audit per il Sistema Gestione Qualità. Non c’era bisogno di tante parole, bastava lo sguardo.
Ora la Lady di ferro esce di rado e solo quando il cielo minaccia tempesta; però, poverina, mica posso tenerla sempre al chiuso. È un soprannome o un ‘intra-nome’?
Certo che passare la vita in alternanza tra ‘Sandrina’ e ‘Thatcher’ pone delle domande esistenziali.
Potrei scrivere ‘ Doctor Jekyll e Mr Hyde. Peccato l’abbia già fatto Stevenson.

Sandra Vegni, 9-2-2024 (da Facebook)

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