“Buonasera! Non voglio derubarla, vorrei solo chiederle – per cortesia – se ha una moneta. Sa, è da questa mattina che non mangio.”
Anche io non avevo mangiato dalla mattina, ma perché sono a dieta, e così ho guardato le sue mani vecchie e gli ho fatto cenno verso la porta di uno di quei locali da stazione che puzzano di fritto vecchio e odorano di caffè, di quelli dove “si fanno” gli/di aperitivi. Lo sapevo che avrebbe voluto dissetarsi con un cartone di Tavernello, e quindi gli ho sorriso quando probabilmente nulla di quello che vedeva esposto riuscì a placare il suo senso di nausea.
L’ha preso poi il panino, uno di quelli di gomma, e una birra per farsi compagnia. Io ho bevuto un caffè e ho continuato a girare, ignorando colpevolmente tutti coloro che, dopo il terzo, vedendomi fumare mezzo sigaro, mi si facevano incontro con lo sguardo umiliato e le dita pronte a chiederne. Avevo già elemosinato ad una signora che conservava i tratti gentili che dovevano averla accompagnata fino al principiare della fine della vita. Piccola, indossava un giubbino rosa, che mi è parso profumare, e che ho pensato fosse stato lasciato indietro da una bimba. Non so perché, ma quel colore me l’ha persino fatta immaginare mentre allegra dondolava su un’altalena in un parco della città.
C’era freddo, quel freddo tipico delle stazioni, dove l’aria si intrufola e si sbatte incontrandosi a metà, proprio dove la gente sostava col naso all’insù e le spalle irrigidite a proteggere il collo guardando gli orari cambiare e diventare da verdi a rossi, e c’erano i mormorii che ai sibili dell’aria spostata dai pochi treni in arrivo, si univano in un sol coro.
L’uomo del Tavernello, dietro me, salutava una donna che rassicurata sul fatto di non dover essere derubata, frugava dentro una borsa grande e piena di cose, cercava alla rinfusa fino a trovare qualcosa che le ha fatto meritare un ringraziamento. La donna piccola, col viso lucido di crema e il giubbottino da bimba, fumava una sigaretta, con le spalle poggiate al pilastro dove di solito la gente si ferma a guardare gli orari dei treni che non corrispondono mai.
C’era quel freddo che paralizzava i piedi, che non faceva più sentir le mani, quello che alla fine non sai più se siano solo lacrime di gelo o pianto, che asciughi subito per la paura che ti si possano fermare là, irrigidite sul viso, eppure, a una certa ora iniziavano a girare le generose scollature e le gambe ricoperte da stivali lunghi, lunghi. E qualche uomo si voltava a guardare, distogliendo finalmente lo sguardo dal tabellone che non proponeva nessuna buona novità.
Più la notte si inoltrava più il traffico diventava surreale, di persone con i carrelli dei supermercati, spinti tenendo lo sguardo per terra, di ragazzi sudamericani dai capelli incollati dal gel, poco più che bambini, e dell’uomo del Tavernello, che recitava la sua parte a memoria, e della signora piccola e rosa che ora aveva una sporta e a passo lento andava oltre il primo binario, probabilmente a dormire.
Ma c’era un albero di Natale, che sembrava davvero bianco di ghiaccio, e alto che per guardarlo tutto, ancora dovevi volgere il naso all’insù e che man mano che si spegnevano le luci dei negozi, e dei locali che puzzano di fritto e odorano di caffè (di quelli dove “si fanno” gli/di aperitivi insomma), sembrava proprio brillare di più.
Ilario Poggesi, 16-12-24
il Buon Natale di Ilario Poggesi
FONTE Facebook 16-12-24
Ilario Poggesi