Il Manicomio

Alba di un giorno di primavera. Prima di aspettare che la nebbia si diradi, percorro una solitaria strada comunale sterrata e mi dirigo verso una costruzione pentagonale dalle mura spesse e rinforzate agli angoli con poderosi bastioni, che richiama alla mente un vecchio edificio militare. Mi ero promesso di farlo anche perché intorno a quell’edificio circolavano in paese storie strane di urla notturne ed addirittura di fantasmi e come si sa la fantasia popolare o le cosiddette dicerie, non nascono a caso. Quando qualche volta avevo provato ad entrare sull’argomento, il fastidio con cui la gente del posto rispondeva, era palese. O si giravano da un’altra parte evitando di rispondere oppure qualcuno mormorava un generico “sono tutte chiacchiere”. Per la strada, prima che il sole inizi il suo braccio di ferro con la nebbia, le piante umidicce mostrano una patina che opacizza il colore delle foglie. Appena fuori paese entro in un viottolo di campagna e poco dopo, con un piccolo salto, supero un fossetto per potermi inoltrare nell’ampio parco a forma di anfiteatro circostante l’edificio. La rete di recinzione, avvolta e stravolta dal caotico fogliame, mostra dei buchi ed attraverso uno di essi cerco di proseguire. Un tempo il complesso, ben curato come dimostrano alcune vecchie fotografie, con vialetti secondari delimitati da piante di alloro potate alla stessa altezza, aiuole circoscritte da listelli di legno e panchine in pietra davanti ad una fontana, mostrava una certa solennità e piacevolezza.

Adesso tutto è ridotto ad un inestricabile ammasso di rovi e di rami che si sono avvinghiati e compenetrati rendendo il parco simile ad una giungla ed in alcuni punti non è possibile vedere il cielo. Dei vialetti interni non resta traccia e soltanto la ghiaia, che scricchiola sotto le scarpe saltuariamente, ce lo ricorda. Proseguo con difficoltà e mi graffio in più punti le braccia. -La natura è più forte anche della sporcizia- penso mentre alcuni gatti fuggono davanti a me tra bottiglie e cartacce. Vicino al castello, il fogliame caotico si attenua e procedo con l’erba che mi sfiora le ginocchia. Proprio al limitare del parco, prima di salire su un gradino in pietra che porta al ponticello, noto una pelle di serpente.

Percorro due gradini e volgendo lo sguardo in basso vedo una traccia d’acqua, residuo dei temporali trascorsi, e deduco l’esistenza remota di un fossato dove una serpe scivola via velocemente. Arrivo nel mezzo del ponte ed appoggiando i gomiti sulla spalletta guardo in alto. Scorgo delle trasandate persiane ed un corvo si leva in volo mentre un altro plana nelle vicinanze. Il portone enorme di castagno massello visibilmente tarlato, rinforzato con borchie di ferro arrugginito, non cede alla mia pressione anche se la chiusura si allenta, ma dopo un paio di tentativi inutili per forzarlo, con la suola delle scarpe percuoto violentemente un’anta che scricchiola liberando in terra del pulviscolo legnoso; infine riesco ad entrare. Davanti a me si presentano un corridoio dai soffitti altissimi e delle finestre irraggiungibili caratterizzate da scivoli che dalla base inferiore calano inclinati verso il basso, evidenziando lo spessore dei muri. Tre cancelli distanziati, incardinati all’interno di un’armatura metallica che dal soffitto arriva fino a terra, sbarrano l’accesso a chiunque. Dai vetri infranti, una corrente d’aria trasporta delle foglie che restano sospese alcuni attimi come i piccioni che planano a loro piacimento nel corridoio.

Non so, dove mi trovo. Sulla mia sinistra una larga scalinata di marmo porta al piano superiore, ma al momento preferisco spaziare a piano terra. Un mobile semicircolare con una rastrelliera per le chiavi vuota, richiama alla mente una funzione di reception, ma non è certo un albergo; proseguo incerto. Entro nella prima stanza alla mia destra. Poco sopra un enorme lavandino in pietra vedo un rubinetto che gocciola lentamente. Una credenza in formica dai cassetti aperti, un mobiletto di legno, due marmitte sopra un enorme fornello a gas ne fanno intuire l’utilizzo a cucina come un ramaiolo appeso al muro che afferro ed inserisco tra le ante del mobiletto, riuscendo ad aprirlo; tre topi fuggono precipitosamente. Questo fatto insieme ad un fustino di detersivo e degli alimenti in scatola fa capire che l’abbandono è recente ed in quel momento un rumore metallico mi fa trasalire: trac.

Mi volto e muovo tre passi avanti. A orecchio mi sembra una serratura e quando odo ancora lo stesso rumore duplicato non posso frenare la mia curiosità. Dallo stipite della porta faccio capolino e vedo di spalle una persona di taglia robusta che impugnando una chiave enorme, spinge con forza sulla serratura del cancello rugginoso, dalle sbarre grossolanamente verniciate a pennello ed in parte scorticate, ed il cancello si apre mentre la chiave sparisce come ingoiata nelle sue mani, prima di finire appesa alla cintola. L’uomo fa ancora circa trenta passi apre una nuova inferriata ed in fondo al corridoio la scena si ripete davanti all’ultima barriera con uno giro di chiave in più della serratura dopo di che esso scompare alla mia vista lasciando i cancelli aperti. Ne approfitto per percorrere tutto il corridoio in punta di piedi e man mano che procedo le sbarre dei cancelli sono più sottili e meno verniciate. Quando impugno una barra dell’ultimo cancello mi resta solo il segno della ruggine nel palmo della mano. -Questo è un carcere- ipotizzo dopo averlo superato alla vista di porte con spioncini aperti.

Al primo che mi capita, curioso vi porgo l’occhio e vedo un servizio igienico divelto ed un telaio di legno che richiama la sagoma di un letto con un foro circolare nel mezzo. Passeggio in fondo al corridoio e mi avvicino ad una lapide enorme che riporta dei nomi con due date. -Probabilmente data di nascita e di morte- penso -forse combattenti della prima e seconda guerra mondiale, ma ci sono anche donne, e non possono quindi essere soldati. Non è una caserma di sicuro! – deduco con sicurezza. Inoltre la data di alcuni coincide con periodi intermedi tra le due guerre e dopo un breve calcolo mi accorgo che son troppo giovani ed i periodi troppo brevi o troppo lunghi. Al momento mi seggo su una panca sgangherata osservando dei cumuli di guano in corrispondenza di un nido disturbato dall’ incessante ed ossessivo tubare delle tortore. Guardo verso l’alto, ma il lucernario, opaco e sporco, ricoperto da un cumulo di fogliame. trasmette un senso di smarrimento ed ostruisce la luce.

Mi accosto alla parete anche perché negli infissi non restano che acuminati e pericolosi spezzoni di vetro. Sento freddo ed un cigolio lamentoso provenire da un luogo adiacente al corridoio ed avvicinandomi con circospezione diventa sempre più distinto. Procedo con cautela, quasi strisciando lungo il muro accompagnato da uno strano presentimento e curioso spio nella penombra sporgendomi solo con il volto. -C’è nessuno?- grido mentre approfittando di un temporaneo barlume, vedo una porta che si apre e si chiude gemendo. Silenzio assoluto. Varco la soglia uscendo dal corridoio e m’inoltro in delle scale buie che scendono; il mio cuore accelera ed appoggio una mano sul petto mentre lentamente mi avvicino a quella stanza e sulla soglia mi appaiono dei lavandini e dei bagni alcuni con le porte spalancate. Rinfrancato, procedo nella stanza priva di specchi e dietro a porte senza serrature vedo dei bagni alla turca che il tartaro e della sporcizia immonda rendono disgustosa ogni considerazione. I tubi lesionati fanno gemere del liquido torbido ed i rifiuti che ostruiscono le buche di scarico non esalano più il cattivo odore che è stato ormai assorbito dalle pareti. Solo un nugolo di mosche vi volteggia sopra, mentre altre camminano fermandosi di tanto in tanto a sfregarsi le zampette come per manifestare la loro soddisfazione.

Su una parete noto una scritta incerta “Mamma aiutami, sono disperato” e poco oltre in basso un “Non voglio morire qui”. Mi soffermo in un bagno e con la punta della scarpa cerco di rimuovere un rigonfiamento dell’intonaco sotto il quale affiorano delle tracce di segni. Sento vagamente dei rumori, ma dopo pochi attimi senza respirare, suppongo che siano le serrature che si chiudono in sequenza nel corridoio tetro ed impenetrabile; immediatamente torno indietro. Mi sporgo quel tanto per costatare che il corridoio è deserto e ritorno subito verso i gabinetti. L’idea di restare chiuso dentro non mi rallegra, ma la curiosità è più forte della paura. Riesco a far affiorare nei bagni graffiti che per qualcuno condensano disperati bisogni di amore, cupa rassegnazione, date espressive che magari per altri sono solo una banale sequenza di segni e numeri. Nella stanza, quando noto la presenza di uno stipo, accendo una sigaretta ed aprendolo insieme a dei secchi, rotoli di carta igienica c’è un mazzo di chiavi; è ingombrante e lo nascondo nella tasca interna del mio giubbotto. -Se è come immagino, è peggiore del carcere perché lì puoi essere rispettato e la tua pena una volta scontata non ti perseguita mentre da qui non esci; e se per caso torni libero, il tuo dolore te lo porti dietro per sempre.

Mi sembra un manicomio- rifletto dopo quello che ho visto. Rientro nel corridoio e rinuncio a percorrere l’altra scala dalla parte opposta che porta sicuramente al sottosuolo perché ad un primo affaccio, sembra sparire nel buio. Preferisco sedermi su una panca e fare delle considerazioni su due piccioni che si rincorrono pesticciando fino a che uno dei due è costretto ad alzarsi in volo ed uscire dalla finestra. Di nuovo il rumore metallico dei cancelli che si aprono attrae la mia attenzione e socchiudo gli occhi per mettere bene a fuoco la situazione. Mi appare un uomo in divisa paramilitare seguito da due persone vestito di bianco che stringono sottobraccio una persona sollevandola da terra mentre cerca invano di divincolarsi e constato, una volta più vicini, che sono due infermieri. L’uomo con nella mano un fastello di chiavi apre l’ultimo cancello e prosegue passandomi davanti senza salutare. Ho la conferma che questo edificio è un manicomio e non un carcere quando le due persone, con il camice bianco e zoccoli ortopedici, arrivano a pochi metri da me mantenendo la loro ferrea presa su un uomo che prigioniero si rifiuta di camminare mentre le punte dei suoi piedi rigano il pavimento polveroso.

Davanti a me comincia a gemere e mi accenna, ma io chiudo gli occhi spaventato e m’immagino che i suoi secondini non abbiano né occhi né orecchi e le bocche cucite con lo spago. L’uomo si contorce e lamentandosi accenna che vuol sedersi sulla panca accanto a me e dopo un disperato lamento, l’unico suono che riesce ad emettere, si volta indietro. Un infermiere cerca di convincerlo a proseguire mentre l’altro aggrottando la fronte, tocca il collega facendogli cenno di fermarsi. L’uomo con un misero pigiama, la testa completamente rapata mostra dei lividi e le vene in pelle in pelle, sul collo scheletrico. Il volto mal rasato gli s’illumina quando accennando ad un sorriso, mostra la bocca sdentata che fa impressione. Gengive esangui, mozziconi di denti incrostati e saliva che gronda da un angolo della bocca; mugola e ride cercando di toccarmi. Resto impietrito mentre palesa, portando due dita a forbice intorno alla bocca, la richiesta di una sigaretta; lo accontento e per gratitudine mi vuole baciare sul volto. Spalanca la bocca liberando un alito fetido che mi obbliga a scansarlo, ma lui allora mi prende una mano ed accenna a baciarla. Mostra soddisfatto la sigaretta ai due uomini ed accetta di proseguire.

Chiedo inutilmente se posso restare in questo luogo perché gli inservienti non mi rispondono e passano oltre. In breve scompaiono e mi muovo con discrezione dietro di loro, ma la mia ricerca di rintracciarli è vana perché dopo la prima rampa buia, sbatto contro una porta. Appena in tempo di tastarmi il naso e la bocca, e ritorno indietro cominciando a vagare per il corridoio con l’intento di osservare dagli spioncini, ma dentro le celle non c’è traccia di presenza umana. Perplesso, mi guardo attorno quando un urlo, proveniente dal sottosuolo, squarcia il silenzio alle mie spalle e turbato mi guardo attorno. A questo punto comincio freneticamente a provare le chiavi, che mi rimpallano tra le mani, nelle varie serrature. -Apre!- sbotto con soddisfazione quando riesco ad aprire la prima porta. Lascio la chiave dentro la serratura e mi muovo nella stanza. Su un muro noto qualcosa simile ad una macchia di sangue secco su cui delle mosche si aggirano. In un cantuccio scolorito da una grossa macchia di umido osservo una scritta “Non voglio la scossa elettrica” e poco oltre un “17. 4. 1948”. Come vi passo il dito sopra un urlo disumano mi fa venire i brividi. Scappo precipitosamente ed ansante mi trattengo nel corridoio. Impaurito, ma attratto, decido di entrare in un’altra cella ed anche qui una serie di scritte rendono più umani quei muri che nel tempo sono stati testimoni omertosi di dolori, efferate violenze e sofferenze indicibili.

Da uno sgorbio risalgo, levando la polvere sull’intonaco, ad un “Mi manca il lavoro” mentre dalla finestra priva di vetri soffia un vento umido ed una farfalla, irraggiungibile come le finestre si libra in volo, strappandomi un sorriso. Con le chiavi riesco ad introdurmi in altre celle ed anche in esse scopro altri dolorosi graffiti fino a che in una di queste, dopo aver sfiorato un “Perché mi avete abbandonato?”, sento un un grido riempire la stanza dove è posta una sedia particolare. In un angolo accatastate alla rinfusa giacciono siringhe, pillole, fasce e bracciali di cuoio con fibbie, camicie di forza logore e sfilacciate. Come tocco un bracciolo, una serie di tonfi fragorosi e di grida riempiono l’ambiente e mi porto nel corridoio per rendermi conto di cosa stia succedendo. Solo adesso noto una lapide con scritto “Perdete ogni speranza o voi che entrate”. Rabbrividisco. Vedo le porte delle celle che si aprono e si chiudono una dopo l’altra mentre il vento aumenta d’intensità; i cancelli vibrano sui loro cardini arrugginiti ed i muri iniziano a sgretolarsi, liberando suoni ed urla.

Il pavimento comincia a muoversi ed improvvise gibbosità che scompaiono e ricompaiono in maniera scomposta qua e là, mi obbligano a procedere a salti e scossoni mentre sento che il portone in lontananza si apre e si richiude fragorosamente. Una folata di vento ringhioso soffia nel corridoio. Vorrei raggiungere l’uscita, ma i cancelli pencolanti sono chiusi fino a che una serie di schianti in successione ne provoca il crollo. Svincolati dai loro cardini, sono un semplice cumulo inutile soffocato da un ammasso di detriti che aumentano a vista d’occhio impedendomi di procedere. Il vento mi fa arretrare e sono sospinto all’indietro camminando come sulla tolda di una nave in balia delle onde. Il pavimento si muove e rigonfia per accartocciarsi improvvisamente in un movimento sussultorio. Scivolo, arranco, mi graffio, mentre cumuli di calcinacci, invadono il corridoio fino a precludermi la vista del portone. Le mura crettano in più punti e nel pavimento delle piccole crepe appaiono e scompaiono. Una finestra si apre e si richiude fragorosamente rovesciando al suolo alcuni frammenti di vetri appuntiti che continuano a vibrare sul pavimento prima di esaurire la loro energia.

Istintivamente mi metto una mano sulla testa e mi porto a ridosso del muro prima che un boato preceda il crollo del lucernario; sono colpito di rimbalzo da una miriade di schegge. Per la prima volta da dentro, posso vedere il cielo che mi appare plumbeo, ma il cumulo dei calcinacci ostruisce completamente il corridoio e le finestre sono troppo alte ed inaccessibili, come le scale che portano al primo piano; mi sento in trappola e contro ogni logica cerco di dirigermi nel sottosuolo. Fatti alcuni gradini, memore di quanto successo poco prima, passo oltre i gabinetti, prendo la rincorsa e colpisco con una robusta spallata una porta che si apre solo a metà. Vorrei avere un pie’ di porco per poterla aprire quel tanto che basterebbe per passare. Dopo una serie di calci dati con la pianta del piede stride, finalmente cede un poco e si arresta. Mi inoltro in un corridoio da cui dipartono delle stanze con le maniglie arrugginite che ormai non si aprono mentre altre si spalancano al mio passaggio mostrando al posto dei vetri, delle grate che danno su uno scanna-fosso. Un tonfo anima improvvisamente quel luogo e sono pervaso dal terrore quando dei ratti, come impazziti, m’incrociano nel cammino. Quasi in fondo al corridoio in una stanza vedo una sedia metallica, una scrivania, un grande armadio di legno, che cadendo si sfascia, liberando incartamenti polverosi. I documenti volano come coriandoli e nella fretta li raccolgo riuscendo a malapena a leggere qualcosa: sono schede di degenti scritte in inchiostro opaco e calligrafia antica. Volgo lo sguardo verso alcune toppe sugli intonaci che coprono probabilmente delle scritte o delle date ed i miei pensieri si accavallano, nascono e muoiono in un attimo inseguendosi senza interruzione. Voglio farmi male immaginandomi situazioni terribili in questo luogo ideale per turpi violenze fuori da qualsiasi regola e sguardi indiscreti. Il sotterraneo è quasi privo di luce ed un mulinello d’aria, mi distoglie da laceranti sospetti e paure reali.

Il pavimento trema e purtroppo, essendo il cammino ostruito, il timore di rimanere schiacciato mi sgomenta; mi manca il respiro. Sconvolto rimbalzo come una palla tra alcuni muri inseguito da urla, tonfi e documenti svolazzanti, che si depositano ai miei piedi, prima che un muro crolli ed uno scheletro mummificato si accartocci scomponendosi davanti a me. Alla fine riesco ad intravedere un piccolo bagliore che proviene da una grata metallica ed una volta sotto penso di tornare indietro per spingervi vicino una scrivania metallica. Una volta montato sopra su di essa riesco a toccare la griglia, ma sono fuori forza. Scendo di nuovo ed a calci sfascio le ante di un armadio ed una volta raccolti i frammenti, penso di fare spessore. Appoggio i documenti sulla scrivania e con i palmi spingo con forza da sotto per scoperchiare la grata, ma non ci riesco. Devo fare in fretta perché i boati che scuotono questo edificio mi arrivano sempre più cupi e frequenti. Torno nella stanza, raccolgo ancora frammenti di legno e scorgendo un lavandino penso subito di sradicarlo dopo averlo aver piegato, ma pur ciondoloni resta attaccato al tubo metallico.

Con il lavandino in mano comincio a girare in un senso e nell’altro con l’intento di stroncare il tubo metallico ed alla fine quando riesco a spaccarlo è ancora caldo all’estremità mentre colpisco con forza la grata. Penso che essa stia cedendo allorché insisto a battervi ripetutamente contro il metallo. Finalmente la grata si smuove impercettibilmente ed insisto ancora fino a che con un colpo essa si ribalta e rotola poco oltre. La botola, non è tanto grande, ma riesco ad afferrarne i bordi e cercando di insinuarmi mi procuro una lesione al palmo, ma non c’è tempo per pulirsi; il timore di morire lì dentro mi obbliga a spogliarmi tutto. Getto gli indumenti oltre il pertugio e con le spalle rigate e sanguinanti riesco a far uscire il corpo fino alla cintola, ma in in un movimento maldestro cado annullando tutto lo sforzo fatto. Mi ricordo dei documenti, che faccio volare fuori, e provo a ripetere i movimenti di prima. Infine liberando un respiro, ancora più graffiato sulle spalle e sui fianchi, mi adagio nudo e sanguinante sul prato.

La prima cosa che penso è di rivestirmi, ma volendo recuperare i documenti non ne ho il tempo perché l’edificio, come un mostro che esala l’ultimo respiro, esplode diffondendo un enorme fungo di polvere che avvolge tutto. Resto lì, sommerso da questa coltre di pulviscolo in attesa che tutto intorno a me si rischiari e nel primo pomeriggio, una volta rivestito, cerco di recuperare tutte le schede sepolte dai detriti. Ne riesco a rintracciarne solo quattro e quando cominciano ad arrivare delle persone, colgo l’occasione di dileguarmi.

Gino Benvenuti Giugno 1993

Da: Border Line / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2019. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Benvenuti, Gino <1943- > Border line : racconti / Gino Benevenuti ; prefazione di Roberto Mapelli Milano : Punto rosso, ©2019
Testo – Monografia [IT\ICCU\RT1\0111555] – [ISBN] 978-88-8351-233-9
Scheda ICCU – http://id.sbn.it/bid/RT10111555