Cuore di Mimmo

(lo strano caso del Sindaco Lucano…)

La sentenza del tribunale che ha colpito così duramente il Sindaco di Riace Mimmo Lucano e che lascia molti di noi perplessi e smarriti di fronte alla sua – apparente? – sproporzione rispetto alla gravità dei reati contestati, ci riporta all’eterno mito di Antigone. Alla sottile linea d’ombra che a volte segna il confine che separa la legge dello Stato dalla legge della propria coscienza. Tra la legge imposta dall’esterno – che può essere inadeguata – e quella interiore che in alcuni casi estremi, può essere preferibile perché più giusta. Quando sono in gioco, in circostanze eccezionali, la vita e i diritti delle persone per i quali la legge vigente può rivelarsi inadeguata, chi ricopre ruoli di responsabilità pubblica può trovarsi, come nel caso del Sindaco di Riace, di fronte ad un bivio: scegliere il dovere legale o rischiare scegliendo il dovere morale. Lui, come Antigone nella tragedia di Sofocle, ha scelto la seconda via, mettendoci la faccia e rimettendoci la reputazione e la libertà. In tempi più recenti Don Milani affermava: L’obbedienza non è più una virtù rivendicando il diritto-dovere di seguire il dettato della propria coscienza nel caso in cui essa confligga con la regola.

Principio questo che egli coerentemente mise in pratica subendone i severi provvedimenti che la Chiesa di allora gli inflisse. Un’altra interessante riflessione su questo tema me l’ha suggerito l’articolo di A. Spadoros apparso sul Fatto Quotidiano il 03 Ottobre a commento del Vangelo della domenica. Gesù, rispondendo alle domande relative al diritto di ripudiare la propria moglie, previsto dalla legge, pur non pronunciandosi apertamente a favore della sua violazione, ne giudica severamente il contenuto per la sua durezza di cuore che contraddice il volere della legge divina che unisce e non divide. Questo principio che afferma la supremazia delle ragioni del cuore sulle motivazioni egoistiche della legge arida e dura, credo possa essere tranquillamente esteso al caso Lucano. Infatti sembra proprio che la sentenza non abbia per niente tenuto conto della ragione umanitaria che richiede la dolcezza del cuore, quella a cui si riferiva Gesù esprimendosi sulla legge che consentiva ai mariti di ripudiare le proprie mogli.

Agire con il cuore significa agire per i diritti e la felicità di tutti gli esseri umani e quindi lottare affinché le leggi perseguano questo fine. Nella situazione data, di fronte a norme inadeguate a fronteggiare il dramma insopportabile dei migranti, Lucano-Antigone ha scelto di non sottrarsi al dictat della dolcezza del cuore. Si temono i vulnus inferti alla legalità dalle sue irregolarità, ma non si temono i vulnus che leggi inadeguate o ingiuste possono arrecare alla vita delle persone. Si calca la mano sulle norme violate, ma non sui diritti negati. Si vede il dito e non la luna. Si vede la trasgressione alla regola, ma non si vede il limite della regola, e quanto la sua violazione possa migliorare a volte, situazioni che il suo rispetto peggiorerebbe. Molte persone in perfetta buona fede credono di difendere Lucano riconoscendo le sue buone intenzioni – nonostante la trasgressione alle norme – e rammaricandosi sinceramente dell’eccessiva severità della sentenza. Credo che questo non sia il modo più corretto per affrontare il caso. Come a dire: “Poverino, tanto buono, ma un po’ coglione, andava capito e trattato con più indulgenza.”Questo atteggiamento pietistico non gli rende giustizia.

Mimmo Lucano non è un poverino, ma un grande: il suo coraggio e i risultati ottenuti, lo dimostrano. Oserei dire che questo approccio è quasi più offensivo degli attacchi frontali e durissimi degli avversari. I quali lo combattono a ragion veduta perché hanno pienamente compreso la pericolosa portata rivoluzionaria della sua esperienza. Il varco che poteva aprire a livello mondiale sulla questione dell’accoglienza e dei diritti umani. Chi lo combatte duramente ne ha compreso il valore più di coloro che lo compatiscono. La storia è piena di trasgressioni che hanno aperto la via a provvidenziali rivoluzioni. Una per tutte la vicenda di Rosa Parks che, rifiutandosi di obbedire alla legge che intimava ai neri di cedere il posto ai bianchi sull’autobus, fece esplodere la rivolta contro la discriminazione razziale in America.

La vita corre più veloce della legge, la quale , per essere autorevole deve rincorrere la vita, cioè, adeguarsi al cambiamento, non in modo pedestre e passivo, ma in modo dinamico e creativo, come ha fatto Mimmo Lucano salvando persone, dando loro un futuro, creando situazioni favorevoli al ripopolamento di un comune a rischio estinzione. Superando l’eterno dualismo tra forma e vita di pirandelliana memoria. Nella misura in cui la forma, costituita dalle leggi, dalle norme, dalle convenzioni, non sta al passo con i tempi, essa si riduce ad un guscio vuoto dal quale la vita è fuggita. Una maschera che copre il nulla. A volte serve gettare il cuore oltre l’ostacolo’. Infrangere la regola può essere, paradossalmente l’estrema, ma unica ratio per favorire l’indispensabile cambiamento.

Anna Maria Guideri, 07-10-2021

Piove

Piove, è vero ed è anche tempesta
ma l’aria è più pulita, l’afa non resta.
Già s’intravede l’arcobaleno
pulito è il cielo dal veleno
più sereno è l’animo mio
anche se manca dell’antico brio
giunto è il tempo di elezioni …
ma ce li leveremo mai dai coglioni?

Baffo Aretino 5/10/2021

dopo i risultati delle elezioni che hanno ridimensionato la destra

‘O animale

Il sor Matteo e la bestia

è or la bestia che tormenta
il sor Matteo e la congrega
che più ormai non s’accontenta
chè quasi vuota è la bottega

Quarantotto bei milioni
posti, onori e bei soldoni
non è roba da accattoni
si direbbe … me cojoni !!!

La sua verve è levantina
giunge a sera da mattina
monotòno è il suo eloquio
giunge spesso allo sproloquio

Capitàn di lungo corso
capitano dal grande fiuto
tanta polvere per strada
vola via con lo starnuto.

Capitano sempre in pista
capitano mai s’attrista
la sua clacche è un po’ bislacca
tanto corse … oramai l’è stracca

El paròn de la filanda
cambiar vole el capobanda
“pussa via che d’imbriagòn
ne ghavemo sui cojòn”

Triste è la sorte del burattino
che credeva d’esser burattinaio
e si svegliò un triste mattino
scoprendo d’essere solo un parolaio.

Volea tirar i fili da per sé
e si trovò come quel re
che vestito si credea. ma nudo era
e più non valse ogni sua tiritera.

Nudo a tutti sembrava e nudo era.

Se trar vuoi una morale della storia
è che tutti posson far baldoria
ma pur un limite si pone:
essere non dèi troppo coglione.

E questa non par s’addica la lezione
al nostro nazionale Matteone.
Troppa arroganza e troppa sicumera
portan l’inverno e non la primavera.

Il Baffo Aretino, 4/10/2021

La mia droga si chiama Draghi

(Non amo Draghi in sé, ma amo Draghi in me. Corriere della sera)

Il contenuto dei seguenti versi non è, come potrebbe sembrare, il frutto della mia fantasia, ma una trascrizione ironica di alcune delle molte dichiarazioni apparse sulla stampa e sui media da quando si è insediato il governo Draghi. Rivendico dunque l’ironia lasciando tutto il merito della serietà delle esternazioni a chi le ha pronunciate.

Si aggira indisturbato
Draghi, il predestinato
a compier la missione
della liberazione
del popolo oppresso
dal giogo giallo-rosso.

Incede sobrio, austero,
quasi non sembra vero,
con il suo portamento
in questo Parlamento:
riscatta l’Assemblea
dalla triste nomea.

La sua reputazione
ridà verginità
a uno Stato buffone
con scarsa dignità.

Tra i media e i giornaloni,
cogliendo fior da fiore,
le false informazioni
hanno un solo colore …
quello dei potentati
delle lobby, schierati
contro Conte – anatema! –
per salvare il sistema
che garantisce ai meno
ricchezza e impunità …
e ai tanti tutto il pieno …
di quel che resterà.

Su Conte, pussa via,
è arrivato il MES-SIA!”
La divina entità
l’Italia salverà …
E’ il Salvator mundi,
banchiere dei due mondi,

l’uom della provvidenza …
Facciam la riverenza,
mettiamoci carponi,
caliamoci i calzoni …

E’ un uomo eccezionale
proprio perché normale.
In bagno non va mica,
di ferro ha la vescica …
Sono cose mai viste …
Alla sete resiste!

Blu è la sua cravatta
che al suo look si adatta …
Semplice ed elegante,
un uomo … no, un gigante!

Modesto, un po’ appartato,
è discreto, distante …
Lui sta dietro le piante
così mimetizzato:
non vuol farsi notare,
è lì solo per fare.

Anche la voce è bassa,
la loquela essenziale,
parla solo alla cassa
della Banca Centrale.

Un ricostituente,
un vero guaritore,
EGLI appare silente
come il Salvatore.

E basta il suo sorriso
che gli rischiara il viso,
il tocco della mano …
e da vero sciamano
ci libera dai mali
presenti ed ancestrali.

Con la semplicità
che lo contraddistingue
va a passeggio qua e là
seguito dalle lingue
dei media genuflessi
in adoranti amplessi.

Al bar, di buon mattino,
lui prende il cappuccino,
ci inzuppa poi un cornetto:
un prodigio perfetto!

Con la moglie ed il cane
va a fare la spesa,
fa la fila pe’l pane
sopportando l’attesa.

Così per il vaccino
lui sta sul seggiolino
e attende taciturno
che venga il suo turno.

In tutto lo sfacelo
lui rappresenta il cielo
che noi guardiamo fisso
dal fondo dell’abisso..

Noi custodi del culto
or ci offriamo all’insulto
per amor di un MES-SIA
che ci mostra la via ..

Non usiam l’ironia!

Con lui sale la borsa …
Or prendiam la rincorsa.
Cos’è la pandemia
se non la strategia
per l’economia?

Si libra in aria, assorto,
conscio del suo mandato.
Sembra non si sia accorto
di quanto è venerato
e non senta il pericolo
del senso del ridicolo!

Anna Maria Guideri, 02-10-2021

SE SCARTABELLANDO … dal Conticidio di Marco Travaglio

1 – Draghi può fare qualunque cosa meglio di Conte. (C.De Gregorio, La 7, DIMartedì)
2 – Sbaragliati i dilettanti torna la politica? Forse. (C. Fusani, Il Riformista)
3 – Il linguaggio della concretezza la politica se l’era dimenticato; irrompe di colpo in Parlamento. (N. Ajello, Il Messaggero)
4 – Il punto di partenza è la sobrietà di modi, di espressioni, di toni … (M. Panarari, La Stampa)
5- Il nuovo stile Draghi, un uomo in cui tutto trova misura. (Il Giornale)
6- –E’ Lei il nostro Mes. (D. Faraone)
7 – Un orizzonte di crescita, economia, sviluppo, progresso … (Corriere della sera)
8 – E’ il salvator mundi, il banchiere dei due mondi. (Libero)
9 – Draghi è un super figo che solo a pronunciare il nome ci fa risparmiare miliardi. (Linkiesta)
10 – Gli portano un bicchiere d’acqua, prova che non è un marziano. (Corriere.it)
11 – Draghi non molla mai, nemmeno per andare in bagno. Lo chiamano vescica di ferro. (Il Tempo)
12 – In Italia è già iniziata la cravatta-mania. ( D. Carretta, Agi twitter)
13 – E’ uno qualunque. In piazzetta si siede vicino alle piante per non farsi riconoscere. (Il GIORNALE riferisce le parole del suo giornalaio)
14 – E’ la vitamina D della Repubblica. All’Italia serve un potente ricostituente. (G. Gandola, Panorama)
15 – Draghi al mattino fa colazione col cappuccino e cornetto integrale. (H.Post)
16 – Ai Parioli lo vedono al mercato con la moglie Serenella e a spasso col cane, un bracco ungherese. (Ag. Ansa)
17 – Ci sono persone normali come Draghi che si è messo in coda per farsi vaccinare insieme alla moglie seduti sul seggiolino di plastica. (La Stampa)
18 – Da un lato c’è il cielo che Draghi rappresenta, la credibilità, il prestigio. L’abisso è la politica, i partiti. (M. Giannini, DiMartedì, La 7)
19 – Lui sarà il sacerdote, noi saremo i custodi del culto. (A.Maria Bernini, Forza Italia)
20 – Draghi ha il difetto che non si riesce a trovare una crepa nella sua vita intemerata. (N. Aspesi, La Repubblica)

Una settimana inedita

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Nel nostro lavoro quotidiano oltre allo sport, la musica e spettacoli vari, cominciò a comparire tra noi colleghi, saltuariamente, il riferimento alla politica. Erano scampoli modesti e confusi, ma indicativi di qualcosa degno di osservazione. Oltre tutto, essendo in pochi, il datore di lavoro, che era spesso insieme a noi, per l’età e l’esperienza che aveva, non disdegnava di inserirsi e stimolare i nostri discorsi in merito alla politica. -La vedo brutta- borbottò lui una mattina con il giornale in mano in attesa che partissero le macchine. -Perché? – chiese il collega coetaneo che era entrato a lavorare insieme a me. -Ci sono da giorni mobilitazioni contro il congresso del Msi a Genova– . –È una provocazione– commentò il capo-officina. –Vogliono riportare i fascisti al governo– asserì mio cugino –vedremo quello che succederà– borbottò dopo essersi messo il giornale in tasca. Quel suo commento ebbe l’effetto per me di tenere le antenne dritte e prima di uscire da casa, la mattina seguente, ascoltai il giornale radio per essere informato dato che quello cartaceo lo comprava sempre la mamma a metà mattinata.

A seguito di questo accenno alla politica, i pareri nel prosieguo della giornata furono infarciti non da preoccupazione, ma da goffe affermazioni. Anch’io devo aver detto allora qualche stupidaggine perché un paio di volte vidi i colleghi sganasciarsi dalle risate. La situazione politica precipitò ed a Roma si ebbero manifestazioni mentre in Parlamento si registrarono durissime prese di posizione. La mattina seguente uno dei miei colleghi, essendo siciliano, si mostrò particolarmente preoccupato e disse che aveva cercato di mettersi in contatto, senza riuscirci, con qualche amico di Agrigento, perché le comunicazioni telefoniche a quei tempi erano sporadiche e difficoltose. –La Sicilia è in fermento già da un pezzo perché a Palermo ci sono state manifestazione durissime– ebbe a dire mostrando la pagina nazionale del giornale, al quale demmo tutti un’occhiata prima di iniziare a lavorare. Mi ricordo che il collega siciliano aveva le lacrime agli occhi quando riprese il lavoro nel pomeriggio e per tutto il tempo rimanente, nel laboratorio non si sentì volare una mosca. Quello che mio cugino aveva paventato non si dimostrò infondato nei giorni a venire perché a Licata, durante uno sciopero che fu proclamato da tutti i sindacati, venne ucciso un giovane dimostrante e ci furono molti feriti.

Durante la mattinata arrivò il principale e, dopo aver chiesto ragguagli sulla produzione, ebbe a commentare l’accaduto terminando con un “ditemi voi se si può morire per una manifestazione”. Noi al momento tacemmo e lui scuotendo la testa entrò in ufficio, ma nel corso della giornata continuammo a parlare di ciò. Con Genova capofila nello stato di agitazione, che si ampliò in tutta l’Italia, la situazione non accennò a placarsi e l’episodio gravissimo di Reggio Emilia fu il culmine; 5 morti causati dalla celere che sparò ad altezza di uomo. Inoltre il giorno seguente, tra Palermo e Catania, vennero uccisi 5 dimostranti e tutto ciò determinò una mobilitazione generale in tutta Italia. Le notizie mi giungevano dal giornale e dai notiziari della radio, ma le riflessioni in merito venivano da quello di cui parlavamo durante il lavoro. Alcuni giorni dopo finito il lavoro, andai in centro perché volevo comprare una camicia senza pensare che vi potesse essere una situazione di tensione e non mi sfiorò nemmeno l’idea che potesse accadere qualcosa. Ignaro di quello che potesse succedere, mi infilai da piazza Beccaria in via dell’Agnolo e sbucai in Via Verdi. Giunto all’altezza dell’arco di San Pierino volevo proseguire in Borgo degli Albizi per andare dritto in Piazza della Repubblica. Vidi subito che qualcosa non era normale e mi arrestai. Notai persone che correvano da tutte le parti, un carosello di camionette, sirene e qualcuno che parlava di tafferugli tra gente e polizia. -Sono passato vicino a piazza del Duomo e c’era un idrante- . –Stasera mi sa che ci saranno scontri– . –Teniamoci pronti– allertò uno mentre una jeep entrò nella piazzetta davanti all’arco, a velocità sostenuta, mentre un’altra nella strada parallela sfrecciò dirigendosi verso piazza del Duomo. Rimasi con la bicicletta in mano spostandomi sotto l’arco ed un uomo anziano mi gridò: –Scappa nini, tra poco la polizia arriverà anche qui– . –Non so dove– risposi confuso. –Dove abiti?– . –Alle Cure– . –Allora vai in senso contrario da questa strada ed arriva a Piazza Donatello– .

Seguii il suo consiglio, però viaggiare in senso contrario fu tutto un frenare, scendere e portare a mano la bici. Per non rischiare allora svoltai in via Alfani per proseguire, attraversata piazza SS. Annunziata, verso Via G. Capponi. Nel proseguire mi ritrovai in Piazza della Libertà, lontano dai luoghi della manifestazione però lì mi fu fatale una verga del tranvai; la mia ruota anteriore vi infilò dentro e feci un capitombolo. Mi rizzai quasi subito per recuperarla, e notai allora, dopo averla appena appoggiata ad una colonna, che un pedale si era piegato. Dolorante mi misi a sedere sui gradini davanti al porticato di un grande edificio e, alzando un gambale dei miei pantaloni, vidi una grossa escoriazione appena insanguinata perché nella caduta ero scivolato verso il marciapiede. Quando tentai di risalire in bici però sentii una fitta sulla gamba destra e scesi tra gli alberi del viale Don Minzoni. Provai a camminare portandola a mano, ma il dolore si faceva sempre più intenso; oltretutto il pedale piegato mi rendeva difficoltoso utilizzarlo. Riuscii comunque ad arrivare a casa, ma non vi salii subito fissando il mezzo, con il pedale integro, al marciapiede.

Seduto sullo scalino del portone dello stabile, mi massaggiai la coscia mentre un paio di condomini riportavano quello che stava succedendo nel pomeriggio in centro a Firenze perché informati dall’unica persona dello stabile che, disponendo del telefono, aveva chiamato una sua parente abitante vicino a piazza Signoria, e ragguagliava tutti nello stabile andando su e giù per le scale; una sorta di “tutta la manifestazione minuto per minuto”. Un mio amico, nell’osservare la mia bicicletta, mi fece notare che un pedale era storto e subito mi scappò detto che ero caduto vicino a casa. –Ora lo dico al babbo e te lo faccio riparare– . Di lì a poco l’amico tornò in sua compagnia indicandogli il pedale storto. –Se trovo un martello te lo raddrizzo– promise l’uomo allontanandosi un attimo. Quando comparve di nuovo, con un mazzuolo ed un pezzo di legno, riuscì a sistemarlo bene e lo ringraziai mentre mi massaggiavo in continuazione. –Che vuoi che sia; è roba che passa– . Presi la bicicletta e ringraziando me la misi in spalla portandola in casa, come facevo abitualmente, visto che ne avevano rubate un paio nei mesi precedenti ad altri condomini, oltre a quella di mia sorella che lavorando proprio vicino al Ponte Vecchio non era ancora rientrata a casa. A mia madre in apprensione chiesi di dare un occhiata alla gamba, senza fare riferimento alcuno su dove fossi stato finito il lavoro.

All’ora di cena mia sorella non era presente, ma non avendo il telefono non poteva comunicare con noi fino a che, con mezzora di ritardo, arrivò visibilmente turbata. –Paola ti potevi fare accompagnare dal principale con la macchina– affermò mia madre mentre le versava la minestra nel piatto- . –E domani come facevo ad andare al lavoro? E poi farsi portare in macchina la sera fino a casa, sai quanti pettegolezzi sarebbero nati?– . –Per una volta potevi prendere l’autobus comunque meglio che non ti sia successo niente. Oggi è giornatuccia; anche lui è caduto vicino al Ponte del Pino– . –Io sto bene non vi preoccupate– risposi a bomba mentre il giornale radio riportava quello che sembrava un bollettino di guerra. Il giorno seguente, sul lavoro, la manifestazione del giorno precedente venne commentata:
Tutti a posto, voi?– chiese il principale.
Certo– rispose il collega siciliano io sono subito andato a casa- proseguì sorridendo.
Sarebbe stato proprio da coglioni andare in centro con il rischio di qualche legnata– precisò il capo-officina.
Vero! – mi limitai a confermare.

Gino Benvenuti, 2021

In Fabbrica

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Mi presentai da solo il Lunedì come fissato, e parlai, dopo aver mostrato la lettera ricevuta, con il capo-impiegato preceduto da un prolungato latrare di un cagnaccio legato a catena davanti all’ingresso. Si informò sul tipo di scuola che avevo fatto (unica volta in cui mi fu utile), mi “catechizzò” sui miei doveri e così, dopo aver esaurito il termine stabilito per il preavviso di licenziamento, venni assunto in questa ditta che produceva attrezzatura meccanica; come apprendista metalmeccanico cominciai un altro percorso senza perdere neanche un giorno. Rinnovai una tuta acquistata sui banchi del mercato in S. Lorenzo di cui andavo fiero al punto da indossarla appena comprata nel tornare a casa.

Quando incontrai una condomina davanti al portone dello stabile stupita mi chiese:
Dove vai vestito da operaio?– .
-Domani comincerò il lavoro in fabbrica– risposi orgoglioso.
-Almeno aspetta di entraci dentro– ridacchiò la signora.
-Sono ragazzi– commentò la mamma mettendosi a parlare con lei –speriamo che gli duri questa voglia– aggiunse trattenendosi a chiacchierare. Io proseguii e mentre salivo la prima rampa di scale la signora mi salutò:
Auguri Gino-.
Grazie signora– risposi nel chiederle di salutare il figlio che non vedevo da un pezzo perché anche lui aveva cominciato a lavorare con suo fratello. Per la mia mobilità adoperai una vecchia bicicletta Bianchi ed un lucchetto con catenaccio che avevo comprato da alcuni giorni ed arrivai, con un quarto d’ora di anticipo, alla ditta ubicata in Via G. D’Annunzio 27, vicino al cinema Fiorella, in un piccolo complesso che raggruppava altri laboratori artigianali ed industriali. Si presentava come una fabbrica di piccole dimensioni dotata anche di un reparto per temperare i prodotti della propria produzione ed era gestita con una divisione rigida nei compiti e nelle qualifiche, con una produzione e degli orari da rispettare, pena il richiamo da parte del personale preposto ai controlli, nonché la consegna di vari strumenti di lavoro di cui ognuno era responsabile; inoltre se la marcatura della cartolina mostrava un colore diverso eri sottoposto al controllo personale. Apparve chiaro la diversità dall’attività di un piccolo negozio e questo fu un fatto di non poco conto. Presi presto confidenza con l’ambiente ed il mio primo lavoro consisté nel produrre alla dentatrice i rulli 38 cc. previsti per il “Cucciolo”, un tipo di veicolo con motore che, tramite una leva, faceva aderire questo ingranaggio dentato al tubolare posteriore, permettendo il passaggio da bicicletta a motorino. Le quattro dentatrici lavoravano in simultaneità e sprigionavano un frastuono infernale. In seguito, dopo che avevo fatto la trafila alla sega elettrica ed al bilanciere, con tanto di comparatore per raddrizzare le barre temperate, cominciai a lavorare alla rettifica universale per portare a misura l’interno di questi rulli già temperati. Con il tampone verificavo l’esatta misura e se il rullo era “lasco” rimediavo, munito di un mazzuolo di legno e lontano da qualche sguardo indiscreto, con un piccolo colpetto ovalizzandolo per procedere ad una successiva rettifica.

Qui la paga era soddisfacente, rispetto al negozio, e, con qualche ora di straordinario, mi permetteva di portare a casa una cifra discreta. Ovviamente abbandonai il corso di tecnico televisivo e quando incontrai l’amico con cui lo avevo seguito gli dissi del mio nuovo lavoro ed anche quanto prendevo.
-Hai fatto bene… anch’io ho trovato un altro lavoro in un’officina meccanica e guadagno molto di più- .
Ero soddisfatto perché potevo comprarmi qualcosa che desideravo anche se dovevo sempre prima versare la busta e dopo ricevere i soldi per i “miei vizietti”; analogamente faceva così anche mia sorella. In casa mia funzionava una redistribuzione “a ciascuno secondo i propri guadagni” perché dovevamo tenere conto rigidamente del bilancio familiare; il superfluo non esisteva. Prima di questo lavoro, niente paghetta pattuita ma uno stillicidio di richieste non tutte esaudite mentre a questo punto potei disporre di qualche soldo. Infatti la prima cosa che pensai fu “ora mi posso permettere di andare allo stadio con un biglietto” e da allora vi andai solo come spettatore pagante archiviando per sempre quell’espediente che, seppur saltuario, mi aveva permesso di entrare la Domenica mattina presto allo stadio insieme ad una persona, che lavorava nel bar sotto la tribuna. Lì lo affiancavo pulendo le tazzine del caffè e riempivo le bottigliette di ponce fino a che non fosse iniziata la partita per ritornare alle mie mansioni durante l’intervallo, salvo poi tornare in tribuna in cima alle gradinate fino alla fine della partita. Dallo stadio, poi a volte rientravo a piedi a casa oppure venivo accompagnato in motorino.

Il bar non cambiò gestione e qualche volta, a fine partita, a seguito dell’apertura dei cancelli interni, quando la gente era defluita, tornai a salutare i proprietari. L’entrata in una fabbrica coincise con regole precise ed obblighi inderogabili, tempi e ritmi diversi da quelli conosciuti nel periodo estivo ed anche nella breve parentesi come apprendista elettricista e le mie abitudini cambiarono in modo radicale. La fatica era tanta ed a volte la sera ero stanco, però questo non mi impediva, nonostante l’esiguo intervallo per pranzare, di partecipare a partite di calcio improvvisate di quindici/venti minuti sfidando la fabbrica attigua dopo aver mangiato in fretta per giocare di più. Quando non era possibile, giocare a calcio nell’intervallo, restavo nel locale adibito a spogliatoio che con un tavolone e delle sedie fungeva anche da “luogo mensa”.

Finito di mangiare i più anziani parlavano spesso, giornale alla mano, di politica, però io non mettevo bocca anche perché non ne capivo ed ascoltavo interessato; dicevo la mia solo quando l’argomento era lo sport e soprattutto di calcio. In quel complesso artigianale dove lavoravo, molti erano pendolari, fenomeno molto diffuso in quel periodo, e spesso li incrociavo per la strada. Venivano in treno dalla provincia di Firenze e scendevano alla stazione Campo di Marte, salvo proseguire a piedi per poco più di un chilometro. Una mattina che arrivai più presto, in attesa di entrare al lavoro, sostai davanti al cancello del complesso artigianale e mi sentii chiamare: era un collega che mi invitava a prendere un caffè. -Ti faccio compagnia, ma non lo bevo il caffè– risposi raggiungendolo. Una volta fuori dal bar mi indicò l’inizio della strada dicendomi “io abito laggiù”. Nel frattempo stavano arrivando un nutrito gruppo di pendolari, alcuni dei quali lavoravano con me, ed egli esclamò, con tono sarcastico, “ecco i contadini!” che nel gergo corrente era considerato come offesa e denigrazione. Questo tipo di provenienza era il segnale di un progressivo distacco, per quelli della mia generazione, dalle campagne ed infatti, quando parlavo con qualcuno di essi, emergeva che quasi tutti i loro genitori avessero avuto esperienze di lavoro legate al mondo rurale.

In fabbrica ero il più giovane e fui oggetto anche di episodi di nonnismo e soprannomi dispregiativi; una maniera per farti capire chi comanda. In alcuni frangenti si rasentava la crudeltà nella derisione e vissi anche un episodio umiliante, ma la seconda volta quando vollero replicare lo stesso copione, ridendo dissi loro di procedere; si stopparono subito e da allora mi lasciarono in pace, avendo saggiato la mia disponibilità allo scherzo pesante. Non ero comunque il solo ad essere bersagliato come una recluta. Bastava un appiglio qualsiasi che duravano a giorni a bombardarti come quando un collega, che abitava nel Casentino, ammise che nel circolo del suo paese alcuni avventori, tra cui lui, si portavano le sedie da casa per stare alla televisione. Non ebbe finito di dirlo che tutti cominciammo a sghignazzare e nello spogliatoio, un ignoto, il giorno dopo, lasciò un disegnino, che restò appeso una settimana, di una persona in piedi, con il suo nome, che aveva una sedia in mano davanti ad un televisore e la mattina, prima di entrare in officina, gli domandavano se avesse portato, la sera precedente, la sedia al circolo.

Ricordo che in occasione della chiusura dei bordelli, nel settembre del 1958, i miei colleghi un po’ più adulti ne approfittarono per fare questa esperienza. Chi non aveva l’età si fece prestare un documento da un altro oppure ebbe la compiacenza della maîtresse e nei giorni seguenti, nello spogliatoio, fioccarono i racconti su come era stata vissuta quella fatidica data. Ci fu chi raccontò di aver portato lo spumante in casino, chi aveva lasciato anche la mancia e chi riportò anche i commenti stizziti della tenutaria rivolti a lui mentre ne stava uscendo:
-Ragazzi, da domani andrete per la strada. Occhio però alle malattie-. Inevitabile che alla fine dei discorsi, fossi sfottuto perché non avevo vissuto questa esperienza. Casualità volle che una Domenica mattina, tornando a casa dopo aver visto un incontro di calcio tra squadre juniores al campo “Padovani”, ubicato ad una cinquantina di metri dallo stadio comunale, mentre camminavo all’altezza del viale dei Mille, poco oltre l’incrocio con via Marconi, urtai involontariamente una persona che usciva dal bar prospiciente. Mi scusai immediatamente e quando questo uomo si voltò mi riconobbe.
-Sei il nipote di Adolfo?– .
-Sì, diciamo così- .

Era un collega del “nonno” e mi aveva conosciuto quando ero andato anni addietro, a visitare la fabbrica Vallecchi. Delle volte, quando andavo a riscontrare il nonno, nel vedermi, sapendo chi ero, si adoperava subito per informarlo, tramite il portiere, della mia presenza.
-Digli ad Adolfo che c’è suo nipote– e dopo pochi momenti il nonno arrivava insieme ad altri colleghi. Qualche volta invece lo avevo incrociato all’uscita della fabbrica; il tempo di scambiare qualche parola ed ognuno prendeva dopo la strada di casa. Subito mi chiese se studiavo o lavoravo ed io lo ragguagliai sulla mia situazione terminando il discorso “faccio questo lavoro ma mi sarebbe piaciuto fare il tipografo o il compositore come era il nonno”. L’uomo, che presentava una vistosa stortura del collo a causa, così mi accennò il nonno, della sua passione nel suonare il violino, mi domandò se abitavo sempre nello stesso posto e mi salutò promettendomi che si sarebbe interessato per me dato “che ho ancora conoscenze nel mondo dell’editoria”. Lo ringraziai ma niente faceva presagire che dopo un paio di mesi si presentasse a casa mia una Domenica mattina. Ero andato a giocare al biliardino al bar e quando tornai, rimasi sorpreso nel trovarlo a parlare con i miei familiari in salotto, dove mia sorella lo aveva fatto accomodare. Alla mia vista egli entrò subito in argomento, facendomi capire che si sarebbe potuta aprire una possibilità di lavoro per essere assunto in un’azienda grafica. –Ho lanciato una voce in giro e c’è questa possibilità. Pensaci- . –La scelta deve essere tua– incalzò mia madre. –Devo dirlo adesso?– risposi un po’ confuso. L’opportunità agognata era a portata di mano e senza mettere tempo in mezzo dissi di sì. –Quando dovrei cominciare?– . –Vai a questo indirizzo e ricordati di dire che ti mando io– tenne a precisare l’uomo che venne ringraziato e prima di andarsene rifiutò di restare a pranzo. Andai più presto possibile in quella fabbrica però mi fecero presente che avevano già provveduto ad un’assunzione, ma quello che sfumò in quel frangente, si presentò pochi mesi dopo quando venni assunto in un’azienda lito-tipografica a seguito dell’interessamento di mia madre che, lavando e stirando per fuori, non perdeva occasione di fare presente questo problema al momento della consegna del lavoro svolto.

Gino Benvenuti, 2021