La Cena

Da: Mosaico / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2019.
http://www.puntorosso.it/edizioni.html

In un’ampia sala di ingresso di una casa colonica, finemente ristrutturata, cominciarono ad arrivare alla spicciolata, nel tardo pomeriggio, un gruppo di persone invitate per una cena. Ad attenderli in quella stanza dal soffitto alto e con il pavimento in cotto lucidato, con delle bellissime piante ornamentali, c’erano dei camerieri in divisa da grande occasione. Uno di essi aveva al momento, il compito di accompagnare le persone al guardaroba e sistemare i soprabiti, un altro era a disposizione per risolvere qualsiasi problema che potesse nascere anche per comunicare con l’esterno dato che in quella zona, i cellulari non ricevevano alcun segnale e gli altri camerieri erano in cucina.

Quel luogo non era la prima volta che ospitava delle cene riservate ed il gruppo, essendo molto affiatato, in attesa di sedersi si sbizzarrì con ricordi, argomenti, commenti sui loro abbigliamenti di circostanza e pettegolezzi vari. In questo piacevole colloquiare cominciarono subito a sostituire il nome di battesimo con il soprannome. Fu così che la farmacista una donna nubile di mezza età e di media statura sempre silenziosa e taciturna, non appariscente e sempre con gli occhiali scuri, da Margherita diventò “Fiala” non per la sua magrezza bensì perché non disdegnava distribuire in certe circostanze particolari, delle sostanze senza ricetta, l’insegnante e traduttrice di madrelingua inglese venne subito chiamata “Biancaneve” invece di Hillary perché circolavano voci insistenti che avesse l’abitudine saltuarie di tirare su della coca, mentre il notaio un uomo di bassa statura, con pochi capelli, brutto, dal corpo sgraziato e leggermente gibboso che lo aveva reso oggetto di dileggio e canzonature costanti dalla scuola elementare in poi, in possesso di una notevole cultura e titoli accademici di riconosciuto valore, fosse chiamato confidenzialmente “Leopardi”.

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La Confessione

A detta dei più anziani abitanti dei borghi della vallata, con una punta di orgoglio, la loro pieve è sempre visibile, anche quando dalla pianura, specialmente nel periodo autunnale, una leggera nebbiolina si spande avvolgendo tutte le case che come un presepe degradano fino al torrente. Si narra che solo una volta in antichità la chiesa fosse inghiottita completamente dalla nebbia e ciò fu il preludio di una terribile pestilenza che spopolò tutto il comprensorio. Vista dall’alto a volte, sembra che sia sospesa nel vuoto perché la nebbia riesce a lambire la parte superiore del bassorilievo che circonda il perimetro, ingoia la piccola scalinata, e si ferma a pelo del lastricato davanti all’ingresso. Nel bar centrale della più grande frazione c’è in proposito una spettacolare gigantografia in bianco e nero che risale ad un inverno degli anni ’50. Oggi ricorre la festa della fine di quell’epidemia e pertanto tutti i borghi che fanno riferimento alla pieve sono in fermento. Anche Camilla decide di visitare la chiesa non tanto motivata da un sentimento di devozione, quanto dai discorsi degli abitanti del luogo scelto come villeggiatura, ormai da tre anni consecutivi.

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Il Manicomio

Alba di un giorno di primavera. Prima di aspettare che la nebbia si diradi, percorro una solitaria strada comunale sterrata e mi dirigo verso una costruzione pentagonale dalle mura spesse e rinforzate agli angoli con poderosi bastioni, che richiama alla mente un vecchio edificio militare. Mi ero promesso di farlo anche perché intorno a quell’edificio circolavano in paese storie strane di urla notturne ed addirittura di fantasmi e come si sa la fantasia popolare o le cosiddette dicerie, non nascono a caso. Quando qualche volta avevo provato ad entrare sull’argomento, il fastidio con cui la gente del posto rispondeva, era palese. O si giravano da un’altra parte evitando di rispondere oppure qualcuno mormorava un generico “sono tutte chiacchiere”. Per la strada, prima che il sole inizi il suo braccio di ferro con la nebbia, le piante umidicce mostrano una patina che opacizza il colore delle foglie. Appena fuori paese entro in un viottolo di campagna e poco dopo, con un piccolo salto, supero un fossetto per potermi inoltrare nell’ampio parco a forma di anfiteatro circostante l’edificio. La rete di recinzione, avvolta e stravolta dal caotico fogliame, mostra dei buchi ed attraverso uno di essi cerco di proseguire. Un tempo il complesso, ben curato come dimostrano alcune vecchie fotografie, con vialetti secondari delimitati da piante di alloro potate alla stessa altezza, aiuole circoscritte da listelli di legno e panchine in pietra davanti ad una fontana, mostrava una certa solennità e piacevolezza.

Adesso tutto è ridotto ad un inestricabile ammasso di rovi e di rami che si sono avvinghiati e compenetrati rendendo il parco simile ad una giungla ed in alcuni punti non è possibile vedere il cielo. Dei vialetti interni non resta traccia e soltanto la ghiaia, che scricchiola sotto le scarpe saltuariamente, ce lo ricorda. Proseguo con difficoltà e mi graffio in più punti le braccia. -La natura è più forte anche della sporcizia- penso mentre alcuni gatti fuggono davanti a me tra bottiglie e cartacce. Vicino al castello, il fogliame caotico si attenua e procedo con l’erba che mi sfiora le ginocchia. Proprio al limitare del parco, prima di salire su un gradino in pietra che porta al ponticello, noto una pelle di serpente.

Percorro due gradini e volgendo lo sguardo in basso vedo una traccia d’acqua, residuo dei temporali trascorsi, e deduco l’esistenza remota di un fossato dove una serpe scivola via velocemente. Arrivo nel mezzo del ponte ed appoggiando i gomiti sulla spalletta guardo in alto. Scorgo delle trasandate persiane ed un corvo si leva in volo mentre un altro plana nelle vicinanze. Il portone enorme di castagno massello visibilmente tarlato, rinforzato con borchie di ferro arrugginito, non cede alla mia pressione anche se la chiusura si allenta, ma dopo un paio di tentativi inutili per forzarlo, con la suola delle scarpe percuoto violentemente un’anta che scricchiola liberando in terra del pulviscolo legnoso; infine riesco ad entrare. Davanti a me si presentano un corridoio dai soffitti altissimi e delle finestre irraggiungibili caratterizzate da scivoli che dalla base inferiore calano inclinati verso il basso, evidenziando lo spessore dei muri. Tre cancelli distanziati, incardinati all’interno di un’armatura metallica che dal soffitto arriva fino a terra, sbarrano l’accesso a chiunque. Dai vetri infranti, una corrente d’aria trasporta delle foglie che restano sospese alcuni attimi come i piccioni che planano a loro piacimento nel corridoio.

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Morte in Treno

Era un Mercoledì mattina del mese di Settembre quando Renato, dopo aver salutato il figlio che impegnato sul lavoro uscì velocemente dalla stazione, si mosse verso il binario dove il treno delle 9, 15 a momenti sarebbe partito. Scarpe da tennis, jeans appena sotto il ginocchio, felpa sportiva sopra una maglietta arancione, acquistata alcuni anni prima ad Amsterdam, ed un cappello, con una piccola tesa leggermente calato all’indietro, lasciava intravedere un ciuffo abbondante di capelli brizzolati. Biglietto alla mano verificò il numero della carrozza e vi salì dentro collocando subito il piccolo bagaglio nello scomparto previsto. Guardò l’orologio e mancando ancora tre minuti ritornò sulla pensilina ed accese una sigaretta restando con un piede sopra il predellino. Per oltre due ore sarebbe stato senza fumare ed allora con boccate ampie e prolungate consumò mezza sigaretta prima di gettarla tra i binari giacché il capostazione aveva fatto già diversi cenni dalla testa del treno e tutti i viaggiatori erano saliti sopra. Prese posto proprio nell’ultima poltroncina singola dello scompartimento così, senza scomodare qualcuno, avrebbe potuto alzarsi a piacimento e non essere disturbato nel cercare di risolvere la propria enigmistica. La partenza di un treno nel binario accanto, gli dette la sensazione di essere già in movimento.

Seduto, comunicò al figlio di essere già partito ed estrasse il biglietto poggiandolo sulla ribaltina mentre due viaggiatori si sistemarono davanti a lui, dopo aver collocato i piccoli bagagli a contrasto tra i sedili. Passò circa una mezz’oretta quando mentre stava completando uno schema impegnativo, fece ingresso nella carrozza il controllore che esaminò il biglietto e lo perforò. Renato lo poggiò sul piccolo tavolino e si lasciò andare all’indietro sullo schienale. Un’occhiata fuori dai finestrini e vide sparire tralicci della luce, fossi e campi seminati mentre ebbe la sensazione che fosse fermo; sbadigliò a lungo. Ebbe un lieve giramento di testa ed appoggiò le mani sul piccolo tavolino cominciando a vedere immagini sfuocate intorno a sé e gli parve che la gente parlasse ad alta voce.

Quando sentì una fitta allo sterno, volle appoggiare la testa sul dorso delle mani arcuando i gomiti sulla ribaltina. Una mano cominciò a formicolare ed attribuì ciò alla posizione scomoda e prolungata, ma quando fece per alzarsi una forza misteriosa, premendolo contro lo schienale, glielo impedì. Il cellulare silenziato vibrando si spostò sulla ribaltina finendo per terra e premuroso un viaggiatore lo raccolse depositandoglielo accanto al suo gomito. Avrebbe voluto ringraziare, parlare del suo malessere, ma il respiro affannoso gli bloccò le parole e, quando il treno raggiunse il massimo di velocità, la sua testa dondolò e le orecchie gli si tapparono. Le persone davanti a lui continuarono a leggere. Ancora poco e poi sarebbe arrivato a Bologna. Qui in carrozza non salì alcun passeggero e nemmeno scesero i viaggiatori davanti a lui e quando passò di nuovo il controllore vedendo il suo biglietto perforato, non lo disturbò. A Firenze non scese come dovuto e non sentì i “buon viaggio” augurali dei viaggiatori vicini che, bagagli alla mano, si apprestarono ad uscire. Quando il treno proseguì per Roma, le mani scivolarono dal tavolino e penzolarono inerti. Rimase con la bocca contro il legno biasimato come maleducato da un viaggiatore che si era seduto davanti a lui.

Il cellulare cadde di nuovo e questa volta restò per terra mentre lui cominciò a sudare quando il treno, in orario, lentamente entrò in stazione e di lì a poco, si svuotò. Solo nella carrozza ebbe un sussulto e riuscì a rialzarsi per un attimo. Gridò aiuto, ma in quel treno vuoto nessuno poté ascoltarlo ed allora con le residue forze riuscì a muovere le gambe mentre il dolore allo sterno si fece più intenso e s’irradiò anche al braccio sinistro. Incerto nel suo proseguire per andare alla toelette si sedé in una poltrona poco più avanti e quando ostinato riuscì ad arrivarci provò ad aprirla, ma constatò che il treno fermo aveva i comandi bloccati. Il sudore copioso gli imperlò il volto quando decise di rientrare verso il suo posto sforzandosi di aumentare il suo passo ma ormai il suo organismo viaggiava per conto proprio.

Giunto a poco più di un metro dal suo posto, strascicando i piedi, cadde; si rialzò, barcollò e si afflosciò come un abito che scivola lentamente da una gruccia, urtando il suo biglietto che volò per terra vicino al cellulare. Sentì freddo e cominciò a battere i denti. Cercò di ricomporsi e con estremo sforzo, raccolse biglietto e cellulare appoggiando la testa sul tavolino quando tre uomini del personale addetto alla pulizia, si soffermarono davanti a lui. -Deve essere un viaggiatore che è salito in anticipo- . -Ha anche il biglietto- . -Lasciamolo dormire- disse l’ultimo con una granata in mano. Il treno cominciò a riempirsi. Tra chi sistemava i bagagli, chi con le cuffie ascoltava musica, chi approntava il suo computer, chi si dedicò subito nella lettura di un libro, chi s’immerse nei propri affari ognuno ebbe il proprio daffare perché nei viaggi brevi e velocissimi, i treni diventano più intimi. Nessuno fece caso a Renato.

Nel primo tratto il treno marciò lentamente e quel povero gomitolo inerte oscillò per un attimo, ma quando prese velocità, fu sballottato e rotolò sul pavimento mostrando il suo pallore mortale; il treno era a metà percorso. Tra grida di spavento, curiosità ed indifferenza, venne subito chiamato il capotreno che ne constatò il polso debolissimo. Dopo poco tramite altoparlante venne fatto un appello per rintracciare urgentemente un medico tra i viaggiatori e farlo venire in quella carrozza. -Che fate adesso?- chiese la viaggiatrice che sedeva davanti a Renato. -Chiameremo l’ambulanza, non vi avvicinate…anzi sedetevi da un’altra parte tanto c’è posto per tutti- intimò il controllore allontanandosi. Arrivò il personale di servizio e stese un telo su Renato immobile. -Ma che fate non è morto- . -Lasciategli fuori la testa per respirare- . Imbarazzato il giovane, cercò di scusarsi dicendo che non aveva capito bene nel momento in cui il treno raggiunse il massimo della velocità. -Alla prossima stazione sarà trasportato in ospedale, l’ambulanza è già sulla pensilina… purtroppo non siamo su un treno locale- comunicò il capotreno. -Ha ragione il controllore; a mia madre è successo che si è sentita male sul treno locale per Bologna e dopo un quarto d’ora era già in ospedale- commentò una giovane.

Renato sdraiato vedeva immagini sfuocate, ma non capiva che cosa stesse succedendo ed aprendo per un attimo gli occhi sbarrandoli dette l’impressione di un decesso. -Mamma mia è morto- . -Signori levatevi di qui andate a sedere- gridò spazientito il capotreno mentre una dottoressa sopraggiunta immediatamente con una valigetta si adoperò per somministrargli un’iniezione. Gli mise un cuscino d’emergenza sotto la testa, i pantaloni slacciati e dopo, alzandogli la maglietta, si prodigò per un inutile massaggio cardiaco. -È deceduto- sentenziò rialzandosi. Il capotreno sbiancò come la salma e si aggiustò il cappello. -E adesso? Non ci fermeremo mica per accertamenti?- chiese ansioso un uomo azzimato che lasciava dietro di sé un alone di profumo – più che morto, cosa può fare? Non resuscita mica!- insisté cinicamente. -Giusto anch’io ho un appuntamento importante…ci mancava solo questo- borbottò una viaggiatrice nel ritirare il suo bagaglio dallo scomparto. -Non si preoccupi e vada a sedere- inveì il capotreno mentre frugò nel giubbotto del cadavere alla ricerca dei documenti.

Gino Benvenuti, Giugno 1993

I Miti che noia!

Si dice che Pan sia nato da una scappatella del dio Ermes, che da bravo sporcaccione si era travestito da pastore, con una ninfa tale Penelope da non confondere con la moglie di Ulisse. Coinvolto da una passione travolgente prese a frequentarla assiduamente fino che un giorno lei al colmo dell’orgasmo, gli disse: -Ma chi sei? Dimmelo! Sei divino!- . Ermes continuò a tacere sulla sua reale identità e Penelope per strappare questo segreto si rendeva disponibile giorno e notte e nei luoghi più impensati. Non so quanto e come sia la gestazione tra gli dei, ninfe ed affini, ma so che un giorno, quando Penelope vide la sua creatura venire al mondo, lanciò un urlo di terrore perché l’aspetto del neonato era decisamente orribile. L’urlo si propagò nei dintorni e quando Penelope fu soccorsa, sostenne di aver visto un essere mostruoso correre nel bosco.

Coperto di pelo, con delle zanne incredibili per un pupo ed un mento su cui spiccava una ruvida barba, era simile ad un caprone perché aveva anche due corna ed invece dei piedi aveva degli zoccoli. Cosa fece Penelope? Abbandonò il figlio nel bosco; brutta stronza! Non per fare l’avvocato del diavolo, ma per curiosità faccio una domanda alla persona che legge ammesso che ce ne sia una: tu avresti portato a casa Pan o avresti lasciato simile creatura nel bosco poiché i centri per la riabilitazione non esistevano? Si fa presto a dire madre fedifraga, ma se ti nasce qualcosa più simile ad una capra che ad un pargolo, cosa avresti fatto a quei tempi? Io lo avrei portato in quel ricettacolo di serpenti che era l’Olimpo pieno di Dei rissosi che s’imbrogliavano l’ uno con altro generando creature orribili vittime di sortilegi. Poteva starci anche Pan senza lasciarlo a zonzo.

E chi poteva portarlo con sé? Il perfetto Apollo? No certamente! La saggia Minerva? Impossibile; l’imbroglione Ermes? Nemmeno a parlarne; simbolo non a caso del commercio e della truffa tra i posteri, lo avrebbe sicuramente imbrogliato, anche se era suo figlio adottivo. Tra tutti, Diòniso il più sfrenato ed umano degli dei sempre pronto a far bisboccia, casino ed a concupire giovani fanciulle che ignare facevano il bagno nel fiume oppure che si erano avventurate da sole nel bosco come Cappuccetto Rosso, senza però il cestino da portare alla nonna, fu quello che lo tutelò. Crebbe secondo certi principi a dimostrazione che anche tra gli Dei l’imprinting ha il suo valore. Secondo il motto “bestia più bestia meno, c’è posto per tutti” oppure “aggiungi un posto a tavola” (anche se sedersi accanto a lui era rischioso perché poteva sempre pestare qualcuno con gli zoccoli che si portava addosso), Pan fece il suo ingresso in società preceduto da una nomea di persona allegra e di buona compagnia, insomma un tipo simpatico come lo descrisse Diòniso. -Fallo essere anche antipatico dopo che è brutto come un mostro!- borbottò Minerva.

Un giorno Pan, che si aggirava per i boschi come un guardone, vide una splendida creatura ed arrapato le piombò alle spalle, ma lei, di nome Siringa, come lo vide cominciò ad urlare e fuggì con gli occhi pieni di terrore chiamando papà Ladone, dio delle acque fluviali. -Papà ho visto un mostro… per favore papà fai che quel coso non mi possa più incontrare… ti prego papà cambiami di aspetto- . -Sei proprio sicura che sia così brutto? Non è che sei sotto l’effetto di qualche allucinogeno?- . -No papà; io mi chiamo Siringa, ma non mi faccio le siringhe- . -Già ho equivocato- rispose il padre che non convinto si travestì da donna andando per i boschi per accertarsi della situazione.

Tutto imbellettato con una tunica bianca ed una parrucca piena di buccolotti biondi, cominciò ad ancheggiare strada facendo, ma di Pan nemmeno l’ombra. Infine al crepuscolo quando si cominciò a vedere e distinguere con difficoltà, Ladone sentì il rimbombo di alcuni passi. Si chinò e cominciò a camminare in ginocchioni tra le frasche attento a non fare il minimo fruscio, ma quando il rumore divenne percettibile non fece a tempo a voltarsi che … zac. Pan quando gli fu sopra, cominciò a palpeggiarlo, ma quando gli rimase in mano la parrucca, accorgendosi che la vittima non era una donna, si ritrasse e Ladone voltandosi quando lo vide, proruppe in un urlo.

Convinto di persona, fece di corsa ritorno a casa. A quei tempi non esisteva la chirurgia plastica ed allora che fare? Bisognava cambiare le sembianze di sua figlia e fu così che Siringa diventò una canna fluviale. Pan che prima si voleva fare Siringa provò a farsi una canna cercandola dappertutto; taglia di qua taglia di là, alla fine tagliò una canna in diversi pezzi. Si narra che sconsolato, li legasse con dello spago formando un flauto e con quello irrompesse nella quiete del bosco adescando e spaventando le fanciulle.

Gino Benvenuti. Settembre 1993

Una settimana inedita

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Nel nostro lavoro quotidiano oltre allo sport, la musica e spettacoli vari, cominciò a comparire tra noi colleghi, saltuariamente, il riferimento alla politica. Erano scampoli modesti e confusi, ma indicativi di qualcosa degno di osservazione. Oltre tutto, essendo in pochi, il datore di lavoro, che era spesso insieme a noi, per l’età e l’esperienza che aveva, non disdegnava di inserirsi e stimolare i nostri discorsi in merito alla politica. -La vedo brutta- borbottò lui una mattina con il giornale in mano in attesa che partissero le macchine. -Perché? – chiese il collega coetaneo che era entrato a lavorare insieme a me. -Ci sono da giorni mobilitazioni contro il congresso del Msi a Genova– . –È una provocazione– commentò il capo-officina. –Vogliono riportare i fascisti al governo– asserì mio cugino –vedremo quello che succederà– borbottò dopo essersi messo il giornale in tasca. Quel suo commento ebbe l’effetto per me di tenere le antenne dritte e prima di uscire da casa, la mattina seguente, ascoltai il giornale radio per essere informato dato che quello cartaceo lo comprava sempre la mamma a metà mattinata.

A seguito di questo accenno alla politica, i pareri nel prosieguo della giornata furono infarciti non da preoccupazione, ma da goffe affermazioni. Anch’io devo aver detto allora qualche stupidaggine perché un paio di volte vidi i colleghi sganasciarsi dalle risate. La situazione politica precipitò ed a Roma si ebbero manifestazioni mentre in Parlamento si registrarono durissime prese di posizione. La mattina seguente uno dei miei colleghi, essendo siciliano, si mostrò particolarmente preoccupato e disse che aveva cercato di mettersi in contatto, senza riuscirci, con qualche amico di Agrigento, perché le comunicazioni telefoniche a quei tempi erano sporadiche e difficoltose. –La Sicilia è in fermento già da un pezzo perché a Palermo ci sono state manifestazione durissime– ebbe a dire mostrando la pagina nazionale del giornale, al quale demmo tutti un’occhiata prima di iniziare a lavorare. Mi ricordo che il collega siciliano aveva le lacrime agli occhi quando riprese il lavoro nel pomeriggio e per tutto il tempo rimanente, nel laboratorio non si sentì volare una mosca. Quello che mio cugino aveva paventato non si dimostrò infondato nei giorni a venire perché a Licata, durante uno sciopero che fu proclamato da tutti i sindacati, venne ucciso un giovane dimostrante e ci furono molti feriti.

Durante la mattinata arrivò il principale e, dopo aver chiesto ragguagli sulla produzione, ebbe a commentare l’accaduto terminando con un “ditemi voi se si può morire per una manifestazione”. Noi al momento tacemmo e lui scuotendo la testa entrò in ufficio, ma nel corso della giornata continuammo a parlare di ciò. Con Genova capofila nello stato di agitazione, che si ampliò in tutta l’Italia, la situazione non accennò a placarsi e l’episodio gravissimo di Reggio Emilia fu il culmine; 5 morti causati dalla celere che sparò ad altezza di uomo. Inoltre il giorno seguente, tra Palermo e Catania, vennero uccisi 5 dimostranti e tutto ciò determinò una mobilitazione generale in tutta Italia. Le notizie mi giungevano dal giornale e dai notiziari della radio, ma le riflessioni in merito venivano da quello di cui parlavamo durante il lavoro. Alcuni giorni dopo finito il lavoro, andai in centro perché volevo comprare una camicia senza pensare che vi potesse essere una situazione di tensione e non mi sfiorò nemmeno l’idea che potesse accadere qualcosa. Ignaro di quello che potesse succedere, mi infilai da piazza Beccaria in via dell’Agnolo e sbucai in Via Verdi. Giunto all’altezza dell’arco di San Pierino volevo proseguire in Borgo degli Albizi per andare dritto in Piazza della Repubblica. Vidi subito che qualcosa non era normale e mi arrestai. Notai persone che correvano da tutte le parti, un carosello di camionette, sirene e qualcuno che parlava di tafferugli tra gente e polizia. -Sono passato vicino a piazza del Duomo e c’era un idrante- . –Stasera mi sa che ci saranno scontri– . –Teniamoci pronti– allertò uno mentre una jeep entrò nella piazzetta davanti all’arco, a velocità sostenuta, mentre un’altra nella strada parallela sfrecciò dirigendosi verso piazza del Duomo. Rimasi con la bicicletta in mano spostandomi sotto l’arco ed un uomo anziano mi gridò: –Scappa nini, tra poco la polizia arriverà anche qui– . –Non so dove– risposi confuso. –Dove abiti?– . –Alle Cure– . –Allora vai in senso contrario da questa strada ed arriva a Piazza Donatello– .

Seguii il suo consiglio, però viaggiare in senso contrario fu tutto un frenare, scendere e portare a mano la bici. Per non rischiare allora svoltai in via Alfani per proseguire, attraversata piazza SS. Annunziata, verso Via G. Capponi. Nel proseguire mi ritrovai in Piazza della Libertà, lontano dai luoghi della manifestazione però lì mi fu fatale una verga del tranvai; la mia ruota anteriore vi infilò dentro e feci un capitombolo. Mi rizzai quasi subito per recuperarla, e notai allora, dopo averla appena appoggiata ad una colonna, che un pedale si era piegato. Dolorante mi misi a sedere sui gradini davanti al porticato di un grande edificio e, alzando un gambale dei miei pantaloni, vidi una grossa escoriazione appena insanguinata perché nella caduta ero scivolato verso il marciapiede. Quando tentai di risalire in bici però sentii una fitta sulla gamba destra e scesi tra gli alberi del viale Don Minzoni. Provai a camminare portandola a mano, ma il dolore si faceva sempre più intenso; oltretutto il pedale piegato mi rendeva difficoltoso utilizzarlo. Riuscii comunque ad arrivare a casa, ma non vi salii subito fissando il mezzo, con il pedale integro, al marciapiede.

Seduto sullo scalino del portone dello stabile, mi massaggiai la coscia mentre un paio di condomini riportavano quello che stava succedendo nel pomeriggio in centro a Firenze perché informati dall’unica persona dello stabile che, disponendo del telefono, aveva chiamato una sua parente abitante vicino a piazza Signoria, e ragguagliava tutti nello stabile andando su e giù per le scale; una sorta di “tutta la manifestazione minuto per minuto”. Un mio amico, nell’osservare la mia bicicletta, mi fece notare che un pedale era storto e subito mi scappò detto che ero caduto vicino a casa. –Ora lo dico al babbo e te lo faccio riparare– . Di lì a poco l’amico tornò in sua compagnia indicandogli il pedale storto. –Se trovo un martello te lo raddrizzo– promise l’uomo allontanandosi un attimo. Quando comparve di nuovo, con un mazzuolo ed un pezzo di legno, riuscì a sistemarlo bene e lo ringraziai mentre mi massaggiavo in continuazione. –Che vuoi che sia; è roba che passa– . Presi la bicicletta e ringraziando me la misi in spalla portandola in casa, come facevo abitualmente, visto che ne avevano rubate un paio nei mesi precedenti ad altri condomini, oltre a quella di mia sorella che lavorando proprio vicino al Ponte Vecchio non era ancora rientrata a casa. A mia madre in apprensione chiesi di dare un occhiata alla gamba, senza fare riferimento alcuno su dove fossi stato finito il lavoro.

All’ora di cena mia sorella non era presente, ma non avendo il telefono non poteva comunicare con noi fino a che, con mezzora di ritardo, arrivò visibilmente turbata. –Paola ti potevi fare accompagnare dal principale con la macchina– affermò mia madre mentre le versava la minestra nel piatto- . –E domani come facevo ad andare al lavoro? E poi farsi portare in macchina la sera fino a casa, sai quanti pettegolezzi sarebbero nati?– . –Per una volta potevi prendere l’autobus comunque meglio che non ti sia successo niente. Oggi è giornatuccia; anche lui è caduto vicino al Ponte del Pino– . –Io sto bene non vi preoccupate– risposi a bomba mentre il giornale radio riportava quello che sembrava un bollettino di guerra. Il giorno seguente, sul lavoro, la manifestazione del giorno precedente venne commentata:
Tutti a posto, voi?– chiese il principale.
Certo– rispose il collega siciliano io sono subito andato a casa- proseguì sorridendo.
Sarebbe stato proprio da coglioni andare in centro con il rischio di qualche legnata– precisò il capo-officina.
Vero! – mi limitai a confermare.

Gino Benvenuti, 2021

In Fabbrica

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Mi presentai da solo il Lunedì come fissato, e parlai, dopo aver mostrato la lettera ricevuta, con il capo-impiegato preceduto da un prolungato latrare di un cagnaccio legato a catena davanti all’ingresso. Si informò sul tipo di scuola che avevo fatto (unica volta in cui mi fu utile), mi “catechizzò” sui miei doveri e così, dopo aver esaurito il termine stabilito per il preavviso di licenziamento, venni assunto in questa ditta che produceva attrezzatura meccanica; come apprendista metalmeccanico cominciai un altro percorso senza perdere neanche un giorno. Rinnovai una tuta acquistata sui banchi del mercato in S. Lorenzo di cui andavo fiero al punto da indossarla appena comprata nel tornare a casa.

Quando incontrai una condomina davanti al portone dello stabile stupita mi chiese:
Dove vai vestito da operaio?– .
-Domani comincerò il lavoro in fabbrica– risposi orgoglioso.
-Almeno aspetta di entraci dentro– ridacchiò la signora.
-Sono ragazzi– commentò la mamma mettendosi a parlare con lei –speriamo che gli duri questa voglia– aggiunse trattenendosi a chiacchierare. Io proseguii e mentre salivo la prima rampa di scale la signora mi salutò:
Auguri Gino-.
Grazie signora– risposi nel chiederle di salutare il figlio che non vedevo da un pezzo perché anche lui aveva cominciato a lavorare con suo fratello. Per la mia mobilità adoperai una vecchia bicicletta Bianchi ed un lucchetto con catenaccio che avevo comprato da alcuni giorni ed arrivai, con un quarto d’ora di anticipo, alla ditta ubicata in Via G. D’Annunzio 27, vicino al cinema Fiorella, in un piccolo complesso che raggruppava altri laboratori artigianali ed industriali. Si presentava come una fabbrica di piccole dimensioni dotata anche di un reparto per temperare i prodotti della propria produzione ed era gestita con una divisione rigida nei compiti e nelle qualifiche, con una produzione e degli orari da rispettare, pena il richiamo da parte del personale preposto ai controlli, nonché la consegna di vari strumenti di lavoro di cui ognuno era responsabile; inoltre se la marcatura della cartolina mostrava un colore diverso eri sottoposto al controllo personale. Apparve chiaro la diversità dall’attività di un piccolo negozio e questo fu un fatto di non poco conto. Presi presto confidenza con l’ambiente ed il mio primo lavoro consisté nel produrre alla dentatrice i rulli 38 cc. previsti per il “Cucciolo”, un tipo di veicolo con motore che, tramite una leva, faceva aderire questo ingranaggio dentato al tubolare posteriore, permettendo il passaggio da bicicletta a motorino. Le quattro dentatrici lavoravano in simultaneità e sprigionavano un frastuono infernale. In seguito, dopo che avevo fatto la trafila alla sega elettrica ed al bilanciere, con tanto di comparatore per raddrizzare le barre temperate, cominciai a lavorare alla rettifica universale per portare a misura l’interno di questi rulli già temperati. Con il tampone verificavo l’esatta misura e se il rullo era “lasco” rimediavo, munito di un mazzuolo di legno e lontano da qualche sguardo indiscreto, con un piccolo colpetto ovalizzandolo per procedere ad una successiva rettifica.

Qui la paga era soddisfacente, rispetto al negozio, e, con qualche ora di straordinario, mi permetteva di portare a casa una cifra discreta. Ovviamente abbandonai il corso di tecnico televisivo e quando incontrai l’amico con cui lo avevo seguito gli dissi del mio nuovo lavoro ed anche quanto prendevo.
-Hai fatto bene… anch’io ho trovato un altro lavoro in un’officina meccanica e guadagno molto di più- .
Ero soddisfatto perché potevo comprarmi qualcosa che desideravo anche se dovevo sempre prima versare la busta e dopo ricevere i soldi per i “miei vizietti”; analogamente faceva così anche mia sorella. In casa mia funzionava una redistribuzione “a ciascuno secondo i propri guadagni” perché dovevamo tenere conto rigidamente del bilancio familiare; il superfluo non esisteva. Prima di questo lavoro, niente paghetta pattuita ma uno stillicidio di richieste non tutte esaudite mentre a questo punto potei disporre di qualche soldo. Infatti la prima cosa che pensai fu “ora mi posso permettere di andare allo stadio con un biglietto” e da allora vi andai solo come spettatore pagante archiviando per sempre quell’espediente che, seppur saltuario, mi aveva permesso di entrare la Domenica mattina presto allo stadio insieme ad una persona, che lavorava nel bar sotto la tribuna. Lì lo affiancavo pulendo le tazzine del caffè e riempivo le bottigliette di ponce fino a che non fosse iniziata la partita per ritornare alle mie mansioni durante l’intervallo, salvo poi tornare in tribuna in cima alle gradinate fino alla fine della partita. Dallo stadio, poi a volte rientravo a piedi a casa oppure venivo accompagnato in motorino.

Il bar non cambiò gestione e qualche volta, a fine partita, a seguito dell’apertura dei cancelli interni, quando la gente era defluita, tornai a salutare i proprietari. L’entrata in una fabbrica coincise con regole precise ed obblighi inderogabili, tempi e ritmi diversi da quelli conosciuti nel periodo estivo ed anche nella breve parentesi come apprendista elettricista e le mie abitudini cambiarono in modo radicale. La fatica era tanta ed a volte la sera ero stanco, però questo non mi impediva, nonostante l’esiguo intervallo per pranzare, di partecipare a partite di calcio improvvisate di quindici/venti minuti sfidando la fabbrica attigua dopo aver mangiato in fretta per giocare di più. Quando non era possibile, giocare a calcio nell’intervallo, restavo nel locale adibito a spogliatoio che con un tavolone e delle sedie fungeva anche da “luogo mensa”.

Finito di mangiare i più anziani parlavano spesso, giornale alla mano, di politica, però io non mettevo bocca anche perché non ne capivo ed ascoltavo interessato; dicevo la mia solo quando l’argomento era lo sport e soprattutto di calcio. In quel complesso artigianale dove lavoravo, molti erano pendolari, fenomeno molto diffuso in quel periodo, e spesso li incrociavo per la strada. Venivano in treno dalla provincia di Firenze e scendevano alla stazione Campo di Marte, salvo proseguire a piedi per poco più di un chilometro. Una mattina che arrivai più presto, in attesa di entrare al lavoro, sostai davanti al cancello del complesso artigianale e mi sentii chiamare: era un collega che mi invitava a prendere un caffè. -Ti faccio compagnia, ma non lo bevo il caffè– risposi raggiungendolo. Una volta fuori dal bar mi indicò l’inizio della strada dicendomi “io abito laggiù”. Nel frattempo stavano arrivando un nutrito gruppo di pendolari, alcuni dei quali lavoravano con me, ed egli esclamò, con tono sarcastico, “ecco i contadini!” che nel gergo corrente era considerato come offesa e denigrazione. Questo tipo di provenienza era il segnale di un progressivo distacco, per quelli della mia generazione, dalle campagne ed infatti, quando parlavo con qualcuno di essi, emergeva che quasi tutti i loro genitori avessero avuto esperienze di lavoro legate al mondo rurale.

In fabbrica ero il più giovane e fui oggetto anche di episodi di nonnismo e soprannomi dispregiativi; una maniera per farti capire chi comanda. In alcuni frangenti si rasentava la crudeltà nella derisione e vissi anche un episodio umiliante, ma la seconda volta quando vollero replicare lo stesso copione, ridendo dissi loro di procedere; si stopparono subito e da allora mi lasciarono in pace, avendo saggiato la mia disponibilità allo scherzo pesante. Non ero comunque il solo ad essere bersagliato come una recluta. Bastava un appiglio qualsiasi che duravano a giorni a bombardarti come quando un collega, che abitava nel Casentino, ammise che nel circolo del suo paese alcuni avventori, tra cui lui, si portavano le sedie da casa per stare alla televisione. Non ebbe finito di dirlo che tutti cominciammo a sghignazzare e nello spogliatoio, un ignoto, il giorno dopo, lasciò un disegnino, che restò appeso una settimana, di una persona in piedi, con il suo nome, che aveva una sedia in mano davanti ad un televisore e la mattina, prima di entrare in officina, gli domandavano se avesse portato, la sera precedente, la sedia al circolo.

Ricordo che in occasione della chiusura dei bordelli, nel settembre del 1958, i miei colleghi un po’ più adulti ne approfittarono per fare questa esperienza. Chi non aveva l’età si fece prestare un documento da un altro oppure ebbe la compiacenza della maîtresse e nei giorni seguenti, nello spogliatoio, fioccarono i racconti su come era stata vissuta quella fatidica data. Ci fu chi raccontò di aver portato lo spumante in casino, chi aveva lasciato anche la mancia e chi riportò anche i commenti stizziti della tenutaria rivolti a lui mentre ne stava uscendo:
-Ragazzi, da domani andrete per la strada. Occhio però alle malattie-. Inevitabile che alla fine dei discorsi, fossi sfottuto perché non avevo vissuto questa esperienza. Casualità volle che una Domenica mattina, tornando a casa dopo aver visto un incontro di calcio tra squadre juniores al campo “Padovani”, ubicato ad una cinquantina di metri dallo stadio comunale, mentre camminavo all’altezza del viale dei Mille, poco oltre l’incrocio con via Marconi, urtai involontariamente una persona che usciva dal bar prospiciente. Mi scusai immediatamente e quando questo uomo si voltò mi riconobbe.
-Sei il nipote di Adolfo?– .
-Sì, diciamo così- .

Era un collega del “nonno” e mi aveva conosciuto quando ero andato anni addietro, a visitare la fabbrica Vallecchi. Delle volte, quando andavo a riscontrare il nonno, nel vedermi, sapendo chi ero, si adoperava subito per informarlo, tramite il portiere, della mia presenza.
-Digli ad Adolfo che c’è suo nipote– e dopo pochi momenti il nonno arrivava insieme ad altri colleghi. Qualche volta invece lo avevo incrociato all’uscita della fabbrica; il tempo di scambiare qualche parola ed ognuno prendeva dopo la strada di casa. Subito mi chiese se studiavo o lavoravo ed io lo ragguagliai sulla mia situazione terminando il discorso “faccio questo lavoro ma mi sarebbe piaciuto fare il tipografo o il compositore come era il nonno”. L’uomo, che presentava una vistosa stortura del collo a causa, così mi accennò il nonno, della sua passione nel suonare il violino, mi domandò se abitavo sempre nello stesso posto e mi salutò promettendomi che si sarebbe interessato per me dato “che ho ancora conoscenze nel mondo dell’editoria”. Lo ringraziai ma niente faceva presagire che dopo un paio di mesi si presentasse a casa mia una Domenica mattina. Ero andato a giocare al biliardino al bar e quando tornai, rimasi sorpreso nel trovarlo a parlare con i miei familiari in salotto, dove mia sorella lo aveva fatto accomodare. Alla mia vista egli entrò subito in argomento, facendomi capire che si sarebbe potuta aprire una possibilità di lavoro per essere assunto in un’azienda grafica. –Ho lanciato una voce in giro e c’è questa possibilità. Pensaci- . –La scelta deve essere tua– incalzò mia madre. –Devo dirlo adesso?– risposi un po’ confuso. L’opportunità agognata era a portata di mano e senza mettere tempo in mezzo dissi di sì. –Quando dovrei cominciare?– . –Vai a questo indirizzo e ricordati di dire che ti mando io– tenne a precisare l’uomo che venne ringraziato e prima di andarsene rifiutò di restare a pranzo. Andai più presto possibile in quella fabbrica però mi fecero presente che avevano già provveduto ad un’assunzione, ma quello che sfumò in quel frangente, si presentò pochi mesi dopo quando venni assunto in un’azienda lito-tipografica a seguito dell’interessamento di mia madre che, lavando e stirando per fuori, non perdeva occasione di fare presente questo problema al momento della consegna del lavoro svolto.

Gino Benvenuti, 2021

La Casa del Popolo

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Uno degli effetti più importanti del mio trasferimento fu che cominciai, fin dai primi giorni, a frequentare assiduamente la casa del popolo Fratelli Taddei a San Quirico di Legnaia distante poco meno di mezzo chilometro da casa, un ambiente ricreativo che mi facilitò l’inserimento nella nuova realtà. Per me un ambiente così fu una novità assoluta ed un’acquisizione importante perché lì cominciai a manifestare gradatamente, interesse per le vicende politiche e cominciai a fare amicizia con diverse persone. Un Sabato pomeriggio vi andai, per la prima volta, a prendervi un caffè quando mi sentii chiamare: era Andrea un ex collega di quando avevo lavorato in fabbrica come apprendista litografo e che al momento vi lavorava ancora. Ci salutammo cordialmente e mi ricordò, presentandomi ai suoi cognati, i disastri che avevo combinato alla rotativa ed a seguire mi ragguagliò su tutti i pettegolezzi di ex colleghi, riportando qualche episodio a luci rosse, fidanzamenti ed altre amenità accadute nella sua fabbrica. Mi invitò a visitare i locali facendosi accompagnare da uno dei soci fondatori che, mentre camminavamo, ci narrò anche delle vicende che riguardavano la storia di quell’edificio che fu a suo tempo requisito dai fascisti e restituito nell’immediato dopoguerra alla sua funzione originaria.

Era un uomo molto anziano basso e dal volto rotondo con pochi capelli tutti bianchi, leggermente claudicante. In gioventù dopo una fase di militanza anarchica aveva partecipato alla fondazione del partito comunista a Livorno nel 1921. Quando passammo davanti al bancone per andare nella sala molto grande con i biliardi, mi presentò il barista, a cui strinsi la mano, informandomi che era il presidente del circolo ed aggiungendo, prima di andare nella stanza dei biliardi, che “il servizio qui lo fanno i soci e gratuitamente”. Una volta dentro la stanza accese delle luci e mettendo a posto nella rastrelliera due stecche che erano appoggiate sul panno verde, ci tenne a dire che “qui hanno fatto anche gare di un certo livello” Oltre una piccola vetrata notai uno spazio con un juke-box e feci una capatina prima di dirigermi, insieme a lui, verso un’ampia sala per il gioco delle carte.

Dopo avervi dato un’occhiata dentro ci fermammo nell’ingresso e l’uomo mi indicò il primo piano dicendo “alla fine delle scale c’è la sala del cinema nella quale tutti i giorni nel dopocena, tranne il Lunedì si proiettano i film e durante l’estate invece viene utilizzato il nostro giardino adiacente. Il cinema è anche il luogo dove a volte si svolgono i dibattiti politici ed altre iniziative su molte questioni. Ci sono tanti giovani come te che vi partecipano”.

Rimanendo a piano terra fece presente che nel sottosuolo “ci sono altri locali per la sezione del partito comunista, quella del partito socialista, un circolo della Fgci ed altri ambienti dove si svolgevano attività culturali ed una biblioteca con tanto di prestito per i soci”. Si sentiva nella sua esposizione un senso di orgoglio per quel complesso che mi parve enorme. Il mio amico, presentandomi ad altre due persone, mi invitò a fare una partita a tressette con loro. Nel tornare a casa, riflettendo su quanto avevo visto, rimasi veramente impressionato da tutta questa attività e partecipazione sociale e nei giorni seguenti andando alla casa del popolo mi resi conto della massa di persone che la frequentavano. Venivo da una realtà prevalentemente residenziale che aveva anch’essa punti di aggregazione politica che facevano riferimento al partito socialista ed al partito comunista, ma le dimensioni al confronto di questa casa del popolo erano ridotte e sicuramente come rapporto e legame con il territorio non erano nemmeno lontanamente paragonabili. Dopo alcuni mesi, una Domenica mattina mentre stavo parlando con degli amici, vidi un giovane di media altezza, magro, dalla capigliatura scura parcheggiare una Guzzi proprio accanto al mio scooterino ed incuriosito lo seguii con apprensione, immaginandomi una caduta della sua moto sopra la mia.

Quando passò accanto a noi salutò subito ricambiato. Appena entrò dentro la casa del popolo, Ivan, un ragazzo con cui parlavo spesso, mi disse “è il segretario della sezione della Fgci” e nel prosieguo del discorso venni a sapere che era stato “il promotore del cineforum Ejzenŝtein e del circolo culturale Nazim Hikmet. Si chiama Gianluigi ma lo chiamiamo tutti Mao. Ora se ripassa te lo presento”. Caso volle che egli uscisse dopo un paio di minuti e quindi ci presentammo dopo che era stato fermato da Ivan. Questo spunto occasionale fornì il pretesto per essere ragguagliato sulle attività culturali della casa del popolo. Gian Luigi citò una serie di nomi che assolutamente non conoscevo ed illustrò il tipo di attività che vi si svolgevano. Alla fine del suo discorso volle precisare come “queste attività fossero tutte autofinanziate” ed anche come “questo circolo è inserito in una realtà dove l’utenza è largamente operaia e proletaria che stimola e ci sprona”. Qui finì questo primo approccio e lo ringraziai per la sua spiegazione. Prima di rimontare in moto tornò indietro e mi fece presente che esisteva una biblioteca per i soci, che potevano prendere in prestito qualche libro.

Su questo possibilità gli amici mi segnalarono che lo avevano già utilizzato suscitando la mia curiosità. Nel continuare a frequentare la casa del popolo constatai come fosse massiccia la partecipazione giovanile, in maggioranza lavoratori. Notai un’alacre attività politica mai vista rispetto al precedente luogo in cui avevo fatto riferimento nel mio tempo libero, praticato da un’utenza che aveva motivazioni diverse e dove gli argomenti prevalenti non avevano una connotazione politica. Ovviamente essa affiorava nei discorsi, che era però cosa ben diversa dal praticarla, ed alla lunga nelle discussioni appariva un orpello fastidioso; questa diversità non fu una cosa da poco. Il fatto che vi fosse nel circolo il giornale a disposizione degli avventori, rispetto al bar dove ero andato sempre prima del trasloco, può sembrare una banalità ma non lo era perché la fruibilità pubblica faceva la differenza anche se per consuetudine in casa mia il giornale non era mai mancato.

Un Sabato pomeriggio vidi alcuni giovani e delle ragazze che stavano danzando davanti al juke-box e mi aggregai a loro trovandomi invischiato in una sorta di contesa “territoriale”. Uno a ballare davanti al juke-box precludeva di fatto l’accesso ad altri mentre qualcuno di noi con le monete in mano era pronto ad inserirli appena la testina del grammofono si staccava dal disco. Tutto per dare seguito al “possesso” del juke-box. Se qualche persona presente aveva pazienza ed era disposta ad attendere la pausa inevitabile bene, altrimenti, come successe una Domenica pomeriggio, uno sbottò ricoprendoci di improperi perché “eravamo degli invasati”. C’era nella fruizione del juke-box un elemento importante perché avere il giradischi rimandava ad una dimensione privata nell’ascoltare la musica e per chi non lo aveva per scelta, come il sottoscritto, c’era la possibilità di socializzare con altri coetanei con appuntamenti “davanti allo scatolone che canta” come borbottò un anziano infastidito dall’eccessivo volume. “Ognuna per sé, juke-box per tutti”; questo valeva anche per le adolescenti quando ballavano tra loro. Quello strumento, che oggi fa sorridere, all’epoca fece sognare tante persone e fu occasione di incontro tra giovani che si cimentavano in piroette e figure ballando distaccati dove ognuno poteva inserirsi senza timore ed anche dove, come successe a me, si combinavano gli incontri con qualche ragazza; una che sarebbe diventata la mia fidanzata, la conobbi con questo approccio.

Alcune ragazze, molto giovani, non frequentavano le sale da ballo mentre lì, in una parte di un locale, era possibile incontrarsi quando stanchi ed esausti ci davamo appuntamento per vederci ancora. Qualche volta veniva anche qualche genitore a controllare, ma in quella bolgia ne usciva più disorientato che mai. Più vicina, a poco più di cento metri da casa mia, c’era la casa del popolo di Soffiano, un edificio ampio a due piani munito di due ambienti per il ballo, uno invernale ed un altro estivo, molto ampio e gradevole, con quattro enormi tigli che emanavano un profumo intenso, e fu per questo che la frequentai a volte nel dopocena. Una sera casualmente vi incontrai due persone che erano state con me nella stessa ditta, uno capo-tipografo e l’altro litografo ed in quell’occasione gli indicai dove abitavo. –Non sarai mica venuto qui a fare danni?– mi chiese uno dei due scherzosamente. –Spero proprio di no– risposi sorridendo. La frequentazione del casa del popolo a San Quirico di Legnaia, mescolando ricreazione ed interessi diversi, prese consistenza e mi trovai coinvolto in discussioni e, parlando poco ma ascoltando tanto, cercai di orientarmi in quella che, inizialmente per me, fu una Babele di pareri discordanti.

Sentivo parlare di argomenti che mi interessavano e soprattutto il contraddittorio a volte mi intrigava. Inoltre a volte mentre assistevo a delle chiacchierate mi veniva chiesta la mia opinione, forse per curiosità, segno comunque che non c’era preclusione verso chi era arrivato da poco in quell’ambiente. Ricordo benissimo la prima volta in cui mi trovai immerso in una diatriba politica, per l’apprensione che provocò in tante persone la crisi di Cuba per la quale sentii parlare di “rischio di una guerra mondiale”. Quando Ivan e suo fratello, con i quali parlavo spesso, dissero che “bisognerebbe fare una veglia per la pace” sentii commentare alle mie spalle “le veglie con le candele in mano si fanno dai preti”, facendo sganasciare dalle risate i presenti. La battuta fece sorridere però non passò inascoltata perché il pensiero di Ivan venne ripreso da un attivista socialista, un uomo di mezza età che come tratto distintivo portava spesso con sé il giornale Avanti. –Hai ragione non ti lasciare influenzare da discorsi a bischero– . –Ecco lui che vuol dire la sua. Vai a dirla nel tuo partito visto che state con i democristiani amici degli americani– . –Lo sai o no che siamo in un periodo di guerra fredda e che il mondo è diviso in blocchi dopo la conferenza di Yalta?– . –Ecco il sapientone che ci vuol spiegare come va il mondo. Dove sta scritto che gli italiani debbano approvare tutto ciò che fanno gli americani perché siamo alleati con loro?– . –Lascia perdere per favore- . La cosa si sgonfiò come accadeva spesso con code di giudizi che non avevano niente a che a fare con la politica. Venivano riesumati episodi pregressi dando la stura, a volte, a giudizi velenosi sulla persona e questa cosa, anche in seguito, mi ha sempre dato fastidio.

Seguirono in breve tempo eventi importanti, che trovarono riscontro anche nel dibattito spicciolo, come la morte di Giovanni XXIII che si impegnò per un rinnovamento della Chiesa proclamando un evento epocale come il Concilio Vaticano II. L’attenzione che ricevette anche da parte del mondo laico non fu casuale perché si prefigurava, nelle premesse, il segno tangibile di una volontà di affrontare le nuove problematiche che i tempi andavano ponendo. Per questo la morte del Pontefice fu motivo di preoccupazione tra coloro che si approcciavano alla politica in maniera più ragionata andando oltre le battute da bar. Un evento che suscitò molta soddisfazione tra i militanti del Pci fu l’esperienza spaziale di Valentina Tereskova nel 1963, la prima donna che volò nello spazio, a coronamento di precedenti esperienze che avevano consolidato, nell’immaginario collettivo, un primato stabilito dall’Unione Sovietica a partire dal primo lancio dello Sputnik nell’Ottobre del 1957, l’invio del primo essere vivente nello spazio ed infine con Jury Gagarin primo uomo nello spazio nel 1961. Questa corsa spaziale fu un terreno di scontro ideologico e militare ed un potente mezzo di propaganda politica per la supremazia nel mondo, che non poteva avvenire con armi nucleari.

Anche l’assassinio di John Kennedy, sconvolse il mondo con le terribili immagini viste da milioni di telespettatori. L’uccisione in diretta dell’uomo più potente del pianeta non poteva ovviamente passare sotto silenzio e le vicende che emersero sulle indagini successive, si prestarono a dubbi ed illazioni pesantissime che non giovarono alla credibilità degli Usa anche se “in periferia”non mancarono le solite battute. -Che te lo sei messo il lutto?– fu chiesto scherzosamente ad uno che diffondeva l’Unità. –Io certamente no, lui che è saragattiano sicuramente– affermò strizzando l’occhio facendoci voltare tutti dopo avere indicato la persona mentre attraversava la strada. Ignaro egli si aggregò a noi e qualcuno del gruppo pensò bene di attizzare immediatamente una discussione riferendogli quanto detto alle sue spalle e così si formò un capannello di persone che anche scherzando od aggiungendo del battute ironiche montarono ad arte la contesa. Chi era in minoranza ad un certo punto rivolgendosi a quelli che facevano da contorno sbottò: –A me non mi ci mettete nel mezzo cari “rizzabischeri”. Arrivederci– . –O che vai via proprio ora? Ci si stava divertendo un mondo– ribatté uno dei presenti. –Lo conosco bene il giochino. Vado a bere; ciao a tutti- .

Fa sempre così– commentò scuotendo la testa un suo antagonista politico. Si toccava con mano nel minuto e fitto scambio di opinioni, seppur emergessero divergenze, di come si mantenesse uno stimolo nel voler commentare quanto vi era di importante in ciò che ci circondava e ci condizionava.

Gino Benvenuti, 2021

La Gita al Mare

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Un Sabato pomeriggio tra una partita di canasta e l’altra, alla casa del popolo, decidemmo di andare il giorno seguente al mare perché un amico, che aveva comprato da poco una Nsu Prinz, si rese disponibile. Finito di giocare pensammo a come organizzarci e decidemmo di darci appuntamento alle sei del mattino, davanti alla casa del popolo stessa, portando ognuno qualcosa che trascrivemmo singolarmente sul foglio usato per annotare il punteggio del gioco. Chi come me portò due sedie pieghevoli trasportandole con lo scooterino, chi una sdraio, chi un ombrellone ed un tavolino piccolo da campeggio. Il padrone dell’auto constatato che il bagagliaio era in parte occupato da attrezzi di lavoro cercò di sistemarlo fino alla saturazione e rimasero fuori il tavolino ripiegabile e la sdraio che legammo, con delle cinghie elastiche munite di un uncino, al portabagagli. La mattina, appena aperta la casa del popolo, facemmo una colazione abbondante acquistammo due bottiglie di acqua minerale, che inserimmo in una borsa di plastica insieme a del ghiaccio tritato, fornito dal barista, da tenere dentro l’auto, pronte all’occorrenza .

Con “la mobilia” sul tetto della macchina, salutammo alcuni clienti mattinieri e partimmo in direzione della “Volterrana” dove prima di arrivarci facemmo il pieno di benzina vicino al Galluzzo dividendo ovviamente la spesa; la giornata si preannunciava splendida. Eravamo in cinque stretti come sardine. Due fumavano, ma con i finestrini aperti ed a me, che allora non fumavo, non davano fastidio. Per guadagnare spazio ad un certo punto chi sedeva accanto al guidatore, dopo una fermata aveva tirato leggermente avanti il sedile per permettere a quello dietro di potere allungare le gambe. Era una posizione scomoda ma non ci sembrava che ne soffrisse perché ad un certo punto mise il braccio fuori dal finestrino ed il guidatore per fargli uno scherzo rasentò un muretto prima di fermarci a Volterra per prendere un caffè. Sentimmo un urlo perché impaurito fece appena in tempo a toglierlo. Fra barzellette, pettegolezzi, qualche ammissione privata ed anche pareri su questa o quella ragazza che frequentava il circolo, gli argomenti non ci mancarono ed il tempo volò. Parlammo anche sulle radioline portatili, che uno di noi voleva acquistare, ed i miei amici sciorinarono una serie di marche e di valutazioni di cui tenni conto quando mi decisi a comprarne una qualche mese dopo. Per distenderci aspettammo che scendesse il guidatore ed in un bar dopo aver bevuto approfittammo della toilette.

Una volta giunti a San Piero a Palazzi girammo verso destra direzione Livorno. Il traffico era intenso e noi andando piano venimmo sorpassati sistematicamente con colpi di clacson insistenti e ripetuti, da alcune auto che sembravano aver fatto un trasloco; su una c’era un materasso arrotolato e su un’altra un gommone che sporgeva davanti e dietro flettendo ad ogni buca. L’Italia vacanziera pur di godersi un giorno di mare era disposta, come noi del resto, ad arrangiarsi in qualsiasi modo. Non avevamo una meta precisa ed intorno alle dieci dopo aver fatto su e giù lo stesso tratto dell’Aurelia una domanda sorse spontanea.
Dove ci si ferma?– chiesi vedendo che andavamo verso Livorno e forse saremmo passati da Antignano.
Ci sono venuto con il mio babbo un mese fa– precisò il conducente -e so che c’è un posto molto comodo proprio vicinissimo alla spiaggia.

Dopo un quarto d’ora ci fermammo invece tra Vada e Rosignano Solvay di fronte ad un tratto di spiaggia che avrebbe dovuto esser libera, ma che in realtà era già affollata. Lo si capì dagli scooter e dalle auto che ci resero difficile trovare un posto dove parcheggiare all’ombra. Alla fine ci riuscimmo e con il nostro carico di mercanzia, attraversata l’Aurelia riuscimmo a piazzarci vicinissimo al mare dopo aver chiesto a due famiglie se potevamo collocare il nostro piccolo ombrellone. Dopo averlo picchettato cominciammo a spogliarci. Ognuno aveva il proprio slip già indossato a casa ovvero le mutande “Cagi”. Creme solari e sapone niente: figuriamoci lo shampoo che non era stato nemmeno preso in considerazione. Prima di andare al mare facemmo crocchio per decidere, sottovoce, di fare i turni all’ombrellone per poi andare subito di corsa dentro l’acqua.
Sono tutte persone oneste ma è meglio vigilare– mormorò Piero, che aveva un bellissimo orologio, mettendosi una mano davanti alla bocca.
Penso anch’io– sibilai a denti stretti perché una signora mi stava osservando. Probabilmente lei intuì quello che avevamo detto perché, prima di sfilare la corse verso l’acqua, ci rassicurò che potevamo stare tranquilli perché “noi siamo del posto e non è mai sparito niente”.

Rispondemmo in coro con un “grazie” ed io che dovevo fare il primo turno di guardia, mi aggregai a loro. Allora non sapevo nuotare e non mi allontanai dalla riva. Sguazzavamo divertiti schizzandoci l’acqua addosso e guardandoci attorno. Uscimmo dall’acqua dopo una mezz’oretta e dal nostro ombrellone notammo che alcuni ragazzi avevano spianato, con un listello di legno, un po’ di spiaggia per giocare a calcio e quando ci mettemmo un attimo a vederli palleggiare fummo invitati a giocare; temporeggiammo un poco. –Allora si gioca? Livornesi contro fiorentini– insisterono i ragazzi. In realtà l’unico tra noi che aveva un po’ di dimestichezza con il pallone ero io che avevo terminato il campionato degli juniores da non molto.

Gli altri quattro erano scarsi ma ormai la sfida era approntata anche perché il sole picchiava fervente ed un ombrellone come il nostro era troppo piccolo; tanto valeva ancora fradici asciugarci giocando. Spesso qualcuno mi sgridava con “passa la palla” perché cercavo da solo di colmare un divario che era soverchiante. Il più grasso lo mettemmo in porta; fu un disastro come la partita. Involontariamente cercò di calciare al volo il pallone che rimbalzò all’ultimo istante per cui lo “ciccò” completamente colpendo invece lo stinco di un avversario. Nacquero dei battibecchi ed alla ripresa del gioco, essendo vicino a lui, nel rinviare mi colpì in pieno volto determinando un’autorete. La gente sghignazzava mentre mi toccavo la testa, ma la partita continuò in un campo impraticabile per le buche che resero difficile calciare con precisione; tutti dietro alla palla tra contrasti, cadute ed imprecazioni.

Venimmo sommersi sotto una valanga di gol sotto gli occhi dei divertiti presenti anche se alla lunga cominciammo a disturbare gente con il proprio transistor, persone che stavano prendendo la tintarella, perché il pallone spesso rimbalzava tra gli ombrelloni. Dopo un richiamo risentito di uno che si era visto sfondare il proprio giornale dal pallone, la seconda volta che gli batté su un piede lo afferrò e, con rabbia, lo calciò con tutta la forza buttandolo in mare; chiudemmo lì il nostro divertimento e stanchi e sudati ci buttammo di nuovo nell’acqua restandoci a lungo. Quando uscimmo nel dirigerci verso l’ombrellone notammo che altre persone erano arrivate in quel posto. Accanto a noi un gruppo familiare, sotto un tendone da mercato rionale, aveva organizzato una cucina da campo sotto la direzione di una donna che indossava una veste e che probabilmente non avrebbe fatto nemmeno un bagno.

Lei con un fornellino a gas con sopra un marmittone, aveva preparato una spaghettata. Da due borsoni tirò fuori di tutto. Frutta, oliera, sale, pepe, ciocche di basilico, una busta con il parmigiano grattato, posate a sfare, forchettone di legno, un thermos con il caffè. Un bambino scavò una buca fino a che non trovò la sabbia umida e ci interrò dentro un cocomero ed un popone per metterli al fresco. Mi tornò a mente il film La Famiglia Passaguai con il figlio di Aldo Fabrizi che metteva al fresco un cocomero regolarmente ghermito da altri villeggianti. Una bambina contava le posate ed un’altra ragazza apparecchiava. Il nostro tavolino era poco più grande di uno di quelli dove si giocava a dama e quell’ombrellone era insufficiente perché il sole batteva a picco. Andai a prendere il borsone con panini e bevande dal portabagagli dell’auto che, parcheggiata al riparo di un albero, era già in pieno sole e lo portai vicino all’ombrellone. –Chi pensa di fare il bagno?- domandò Prinz.

Nessuno rispose. –Allora finiamo tutto quello che abbiamo perché dopo un sonnellino ci rimetteremo in marcia e se avremo voglia di prendere qualcosa ci fermeremo ad un bar– .
Giusto– . –Magari muoviamoci verso Livorno– . Nemmeno fossimo stati a cottimo demmo fine a tutto quello che avevamo portato. Sotto un ombrellone vicino al nostro, mentre stavamo distendendo gli asciugamani, un uomo sempre con la radiolina attaccata agli orecchi ci chiese:
Lo volete un po’ di caffè?– .

Non ce la facemmo ripetere due volte e ringraziando andammo verso di lui. Bevuto il caffè, l’uomo che era stato sdraiato da quando eravamo arrivati, mi offrì una sigaretta che rifiutai dicendogli che non fumavo ma Piero sfrontato non la rifiutò e così ci sedemmo a far due chiacchiere sotto il loro ombrellone. Ci disse che era uno spazzino e che a Firenze conosceva delle persone con le quali si teneva in contatto. Infine ci tenne a farci sapere che “puntualmente da diversi anni vengono in questo posto a fare le vacanze”. Fu tutto un parlare fino a che la signora tagliando a fette il cocomero volle offrircene una a testa. La conversazione continuò raccontando di noi, del lavoro che facevamo ed alla fine ringraziando ci appartammo per riposarci. Seduti sugli asciugamani ci accorgemmo allora che nessuno aveva portato la crema solare. Per ripararsi indossammo le magliette e ci mettemmo i pantaloni appoggiati sulle cosce. Dopo poco uno di noi cominciò a dormire ed io, che non mi sentivo di stare sdraiato, mi misi a veder giocare a scopa ed a briscola le persone dell’ombrellone più vicino, dopo che avevano sgomberato il loro tavolo. Mi raggiunse Piero che approfittò per scroccare un’altra sigaretta e rimanemmo in attesa che si svegliasse “Prinz”. Non volevamo restare lì a lungo ed alla fine decidemmo di svegliarlo strattonandolo.

Così, dopo aver salutato i vicini di ombrellone, sistemammo di nuovo tutta la mercanzia sul portabagagli e via di nuovo in movimento. In auto cominciò una diatriba tra chi voleva fermarsi a Castiglioncello e chi a Quercianella. La questione non riguardava il luogo ma esisteva per il fatto che due di noi avevano fatto conoscenza con delle ragazze nelle rispettive zone. -Il problema non esiste. Quercianella e Castiglioncello sono attaccate. Si può parcheggiare e poi ognuno va per conto proprio per ritornare ad una certa ora- . –Sentite io non ho voglia di venire a reggere il moccolo. Se vuoi andare a trovare quella ragazza ti si lascia lì e si ripassa a prenderti brontolai.
Giusto– rincalzò il proprietario dell’auto il cui parere ovviamente valeva più di ogni singolo. –Il film Il Sorpasso l’hanno già girato e non c’è bisogno di comparse! – rincalzò Piero. Nel parlare concitato non ci accorgemmo che eravamo già oltre i luoghi richiesti ed io desiderai di rivedere anche di sfuggita la sagoma della colonia Firenze che mi aveva ospitato.

Chiesi di rallentare e fui accontentato, ma sull’Aurelia il traffico era intenso e fummo oggetto di una serie di colpi di clacson e qualche imprecazione. Notai la scritta “Casa Firenze” su un edificio ed indicandola dissi: –Guardate sono stato qui in colonia– . Dalla parte opposta vidi schiere di bambini sulla spiaggia e dedussi che fosse ancora in funzione. Chi guidava notò che c’era un pezzo di spiaggia vuoto sulla sua sinistra però era rischioso fare manovra di inversione e così proseguimmo fino a che approfittando di una dirittura che garantiva una visibilità migliore facemmo un’inversione ad u. Riuscimmo a ritagliarci un piccolo spazio con i nostri asciugamani ed a turno ci buttammo di nuovo in acqua. Una volta riuniti notammo che non c’erano locali vicino ed al primo stimolo di sete, preferimmo alzarci e tornare verso casa.
Prima asciughiamoci bene– puntualizzò Prinz –altrimenti mi bagnate i sedili– . Era un uggioso che durante tutto il viaggio si era raccomandato di non gettare le cicche all’interno dell’auto e nello scendere dall’auto si era irritato gridando “mi avete riempito di sabbia le pedanine”.

Avevamo gli asciugamani ma non il cambio e per non perdere tempo ci infilammo i pantaloni. –Ma che fate?– domandò Alessio. –In un quarto d’ora si asciugherà tutto– risposi. –Sì ma quando si riparte metti l’asciugamano sul sedile– precisò Prinz. –Tranquillo te la porteremo a lavare e pagheremo noi. Vero ragazzi?– propose Piero. –Giusto facciamo così– . –Vi prendo in parola– commentò il proprietario. –Vicino all’officina dove lavoro c’è un lavaggio. Ottimo lavoro e buon prezzo. Domani gli chiederò quando la potrai portare– . Chiuso questo battibecco, ci infilammo nel primo bar a nostra portata in tempo per vedere due ragazze che ballavano da sole al juke-box. Bevemmo una birra a testa stando al fresco e dopo inserendo tre gettoni nel juke-box le invitammo tra di noi ed accettarono. Finita la musica, ripartimmo dopo averle salutate.
Ci siete anche Domenica?– domandò Piero.
Certamente– confermarono sorridenti- .
Allora si torna– . –Vi aspettiamo– ci dissero sventolando la mano mentre entrammo in auto.

Arrivammo a casa semplicemente arrostiti stanchi ma contenti di aver passato una giornata diversa. Io andai subito in bagno e guardandomi allo specchio ero rosso come un peperone. La sera restai in casa chiedendo a mia madre che mi fosse spalmata una pomata contro le scottature, perché avevamo in casa una piccola farmacia e provai immediatamente un senso di sollievo, ma appena mi appoggiai alla poltrona sentii la pelle tirare. Fu una vacanza improvvisata come tante e bastava vedere il traffico nel fine settimana come attestato di un desiderio seppur effimero. Erano gli anni in cui il popolo italiano scoprì le vacanze estive e si riversò nelle località marine con qualsiasi mezzo, come dimostrarono varie sequenze del film Il Sorpasso ed in una di queste si vede una moto con sidecar, dentro al quale sta una donna con un bimbo in braccio che Gassman sbeffeggia “E il nonno non è voluto veni’?” salvo poi aggiungere “belle famiglie italiane”. La spiaggia diventò il luogo privilegiato di incontro come le piazze in città nelle stagioni non estive e le immagini furono il termometro della voglia di divertirsi e della spensieratezza del popolo italiano, tra incontri, approcci, avventure, conversazioni, gusto di ostentare, sorrisi, tintarelle e soprattutto danze scandite dal quel totem che fu per noi il juke box, che diffondeva le canzonette in voga.

Importante era esserci, non importava per quanto e come, dando sfogo alla voglia di vivere oppure anche per ritemprarsi dopo un anno di lavoro. In quella massa di villeggianti ognuno si ritagliava le proprie vacanze grazie anche ad un altro simbolo di quel periodo: la cambiale. Erano gli anni in cui molti però cominciarono ad organizzarsi anche per soluzioni più onerose e stabili. Infatti nei primi giorni di Settembre, quando ormai si era esaurito il ciclo delle vacanze, cominciavano a vedersi nella casa del popolo volti abbronzati che nei primi giorni facevano le loro considerazioni sulle loro ferie, dove erano stati, il trattamento ricevuto, l’importo della spesa ribadendo anche in alcuni casi il desiderio di ripetere la loro esperienza. La cosa si protraeva per diversi giorni suscitando anche reazioni sarcastiche. Una sera assistei ad una scenetta divertente quando una persona, da più di un quarto d’ora, magnificava le proprie vacanze e per un po’ ci fu chi lo stette ad ascoltare però ad un certo punto venne interrotto: –Scusa compagno proletario come la metti adesso?– domandò, facendomi l’occhiolino, uno che si diceva vivesse una situazione economica agiata. –Perché pensi di poterle fare solo te le ferie? Ora ce lo possiamo permettere anche noi, caro quattrinaio– fu la replica piccata di colui chiamato in causa. –Allora non sei più proletario. Gliel’hai detto al partito?- . –Io non sarò più proletario ma te lo sai cosa sei?– . –Cosa? Sentiamo– . –Sei semplicemente un bischero ! – . Il battibecco non si chiuse qui anche perché, come succedeva spesso, individuata una persona reattiva, cominciavano quelle punzecchiature sarcastiche, dove era difficile distinguerne lo spirito subito corroborate da altre interferenze. –Hai fatto bene a rispondergli. Viene qui a fare lo spiritoso dopo che ha la casa al mare, eh! Sei stato anche troppo morbido– rinforzò sorridendo un’altra persona suo collega di lavoro, gettando benzina sul fuoco; lo conosceva bene e sapeva che per un nonnulla si infiammava. –Insisti, Giuseppe– incitò ridacchiando.

Fomentata la contesa, scattava la trappola per il soggetto “sensibile”; replicare o lasciar perdere? In quel frangente la cosa sembrò essersi smorzata, ma qualcuno insisté. –Se ce l’ha la casa al mare, buon per lui che in fondo ha sempre detto di non essere iscritto a nessun partito e di essere un borghese convinto. Lui è coerente, mica come tanti che parlano di sfruttamento… – . Non ebbe finito di finire il discorso, che la reazione giunse immediata da chi sentì in queste parole un’allusione nei propri confronti: –Senti, tu metti bocca quando ti si dà il permesso. Per tua norma io non sfrutto nessuno con paghe da fame a differenza di lui, capito?– controbatté la “vittima prescelta” alzando il tono della voce e puntandogli il dito contro il petto. In un crescendo continuo si arrivò anche a delle offese fino a che uno dei presenti chiese che ore fossero. Ad una risposta precisa, commentò: –S’è trovato l’ora di andare a cena; arrivederci– . Come a comando il gruppetto si sciolse e la discussione finì.

Gino Benvenuti, 2021

La Cambiale

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Insieme a Carosello bisogna parlare anche della cambiale, che è stata uno strumento importante, in quel periodo, per potere accedere ai beni di consumo senza avere nell’immediato una disponibilità di liquidità. I cosiddetti “pagherò” altro non erano che un credito offerto per acquistare ratealmente ciò che ci piaceva, impegnandoci ad onorarlo. “Pagherò” o “farfalle” furono lo strumento ideale per acquisire generi di consumo rateizzati ed i tempi in cui Rascel cantava nel varietà “è arrivato il ventisette/ prendo a rate una cambiale” diventarono un pallido ricordo.

Nel corso del tempo sono state soppiantate da altre modalità di finanziamento domestico, ma durante il boom economico passavano di mano in mano come i soldi.
Perché si potesse realizzare questo circolo virtuoso ci volevano delle condizioni particolari che oggi però non esistono: l’ ottimismo di un futuro confortevole e migliore del presente, una voglia di vivere e soprattutto un lavoro sicuro unito alla volontà di onorare il debito. Su questo aspetto non influiva solo il timore di essere elencato in una specie di “lista nera” che le camere di commercio compilavano e pubblicavano scrupolosamente per tutti gli esercenti, al fine di segnalare imbroglioni o inadempienti. Dove non arrivava questa segnalazione ci pensava, nel parlare minuto, il passaparola più letale degli elenchi, che segnalava con discrezione o meno, “attento al cabriolet (assegno scoperto)”, oppure strizzando l’ occhio al negoziante.

Essere additato silenziosamente dal pettegolezzo a volte complicava anche il semplice colloquiare, come se fosse scattato una sorta di anatema e di questo ne fui direttamente testimone quando una volta andai dal meccanico per una riparazione al mio scooter. Appena un cliente si allontanò ci fu subito uno scambio, tra i presenti, di occhiate e sorrisetti e venne bollato da un’ altra persona che mise in guardia il proprietario dell’ officina: Stai attento Bruno non gli fare credito poi te lo dico io perché .

Non disse la motivazione ma fu eloquente il riscontro dei presenti. Viceversa quando uno mostrava la propria moto od auto, acquistata un po’ di tempo prima, era motivo di orgoglio far sapere che aveva estinto il debito puntualmente.
In merito a quanto detto assistei ad un siparietto a dir poco esilarante, quando una mattina andai dal giornalaio.
Un buontempone sempre scherzoso incontrò, davanti all’ esposizione sul banco dei giornali, un anziano condomino, come seppi dopo, e gli domandò:
Che è vero che i’ tu’ figliolo l’ è nella lista nera?-
Ma che mi dai i numeri?– rispose l’ ometto guardandolo di traverso.
Eppure me l’ hanno detto– insisté il giovane ridacchiando mentre mi guardava.
I’ mi’ figliolo un n’ è fascista- .
Cosa c’ entra la politica? E dico che non paga le cambiali; hai capito? Per questo è nella lista nera– .

L’ anziano, che fece gesto di non sentire, lasciò perdere ma quando il giovane se ne andò, salutandolo gli disse:
Giovane, meglio non pagare le cambiali che avere le corna– .
Io rimasi l’ ultimo ad essere servito dal giornalaio che una volta uscita la persona anziana, commentò sghignazzando:
Il problema è che hanno ragione tutti e due– .
Mia madre mostrava un’ avversione verso le cambiali celandosi sempre dietro la scusa che “pagare in contanti è più vantaggioso perché si acquista a meno” ma io quando anni dopo comprai la 500 perché ero a ruolo nello Stato, ne firmai un pacco prima di uscire dal concessionario e mi ripetei cinque anni dopo per l’ acquisto della A 112.

Gino Benvenuti, 2021