Movimente

(Manifesto dell’anima pensante)

I pensieri non sono problemi son creature
Cercare il fuori luogo e l’oltre modo
Lo scrittore è uno scritturato
C’è un tempio tra le tempie

Infinire
Che l’Occidente si orienti
Non avere coraggio per sapere, tenerne per non capire
Non credere nelle radici ma allungarsi coi rami
Captare allucinazioni sempre in perfetto stato di lucidità
Scoprire se sulla terra c’è vita

Immedesimarsi
Coltivare desideri preterintenzionali
Intercettare l’invisibile
Indossar corpi altrui
Inaudito avulso astratto
Non posseder ma essere posseduti
Lasciatevi incontrare in continuazione
Smarrire la strada (così la troverà qualcun altro)

Nevicatevi
Reincarnare reincarnarsi
Baciare a strascico
Meno pazienza e più trascendenza
Predirsi prima dei futuri
Farsi portare dall’invento
Eventualità estreme e illimitate, contemporaneamente
Se si è fuori di sé avvertire il dolore
Differir tra religione e spiritualità
Non sperare in faccia a nessuno
La passione sia energia, mai solo una giustificazione

Rubarsi
Guardare le tv ma non accenderla
Invidiar sè stessi
Abbassare di molto i toni della tradizione
Imitare solo in caso di nulla
Pilotare l’indiscusso
Porre le basi per avere altre altezze

Fare il mare
Rammentare che parodiare è da parodiabili
Elevarsi alle ennesime potenze
Smetterla di sentirsi un Dio ma cominciare ad esserlo
Mai confondere velocità con fretta
Cantar solo incantando

Aprimi cielo
Prendi paura (e portala via)
Un figlio nasce, non “si ha”
Prima del cittadino e dell’uomo viene l’essere
Meno orgogliosi più rigogliosi
Conosci tre stesso
Usare solo bombe boomerang
Prevenire le metastasi culturali
Aver cura del proprio metafisico

Basta sfide
Ogni giorno fare detestamento per non accontentarsi
Essere “capaci” (nel senso di contenere il più possibile)
Saper cosa dire quando si deve tacere

Entrarsi
Cogliere la differenza tra scienza e coscienza
Morti si nasce vivi si diventa
Uscire dal Curassico (epoca dell’unica medicina)
Il genio non ha patrie
Lasciare l’ironia a chi non ha altre doti
Complesso non vuol dire complicato
Bisogna potere
Inasprire l’appena
Salviano il baleno

Detonare
Volarsi molto bene
Cosmo universo terra
Provare ad essere stranieri
Più sovraumani, non più umani (dobbiamo diventare)
Meno creanza più creato
Usare il cavallo di Gioia per entrare
Ribellarsi (rivolere il bello)

Alessandro Bergonzoni

Lettera di Silvia a Luigia

Dalla Serie: Missive impossibili di Sandra Vegni

Lettera di Silvia (Teresa Fattorini)
a Luigia Pallavicini (caduta da cavallo)

Recanati, 18 maggio 1800

Carissima Luigia,
sol da poco mi giunse triste notizia de la tua caduta da cavallo in quel della spiaggia di Sestri Ponente. Così lungi, quella spiaggia, da questa mia che lambisce il basso mar Levantico e le sue scarse onde celate, ahimè, spesso alla vista dall’alta siepe che cinge la casa del ‘mio’ poeta.
Quanto diversi – e ‘ahimè’ qui non mi è bastevole a significar lo strazio del mio cuore – i due poeti! Le folte chiome e l’ardimentoso eloquio del tuo amico, lo sguardo fiero e l’eleganza dei suoi passi sebbene – ahi te! – lui se ne vada ognor sempre fuggendo e rare sian le occasioni per fugaci incontri. Ma quanto intensi e leggiadri! Io mi ti immagino, sia pur sofferente, adagiata su soffici cuscini dai leggeri ricami, la mano tremante che riposa fra quelle, calde e forti, del tuo Ugo.

Cuscini per me non ve ne son, salvo le stoffe caduche da disegnar con l’ago: opre femminili cui debbo intendere, sospirando – ahimé di nuovo, che altre parole non sorgono dalla mia mente stanca – mentre sogno agili destrieri scalpitanti e nubi di sabbia levarsi alle mie spalle.
Ben varrebbe una caduta e una gamba da risanare l’afflato del vento che scioglie le mie trecce.
Ma ciò non mi è dato, né mai mi sarà: così mi vuole il poeta e della sua malinconia – non altro – mi fa dono e non esita a far miei i suoi pensieri. Dove mai avrà visto un sorriso perduto dietro a quel vago avvenir che in mente par ch’io abbia?

Pare a lui, forse, ed io or l’osservo, seduta al piano superiore della casa onde liberar il guardo dalla folta siepe e respirar profumo marino. Eccolo, nascosto dalle fronde, in mano un libro consunto, consumar le pietre di un piccolo sentiero. Piccolo, curvo, dall’aria stantìa, la mente che vaga in insondabili pensieri. Sommo, il mio poeta? Non una rima mette insieme, non la musica e il ritmo del tuo Ugo. Evocate sponde, e mari, e lucenti battaglie … sinistri oblii, pallide lune … Oh Luigia, Luigia! Davvero questo è il mio destino?

Aspettar, ogni giorno, da questo balcone, mentre sorrido mesta al guardo di Giacomo, l’arrivo serotino di un peschereccio che affonda la prua nel verde polveroso di questa marina. Polveroso non è il pescator che scende, folti ricci usti dal sole, la pelle bronzea, novello figlio di Nettuno che sbarca balzando in su la riva, la rete colma di pescato stretta fra le ruvide mani.
Che mani, Luigia mia, che mani! Nemmeno tu lo sdegneresti, io credo.

Ma consumar devo i miei giorni, assisa in su questo verone, musa, mio malgrado, del bruttarello vate. E sogno giorni diversi, e cadute rovinose e poeti pugnanti e, se accontentar mi devo, pescatori esultanti vibranti di maschile ardore.
Or ti saluto che il vate mio risale, lento, in su le scale, per il saluto serotino: un casto bacio, tremante, legger calor di labbra su la mia fronte corrugata.
Davvero è questo il mio destino? E se fuggissi? Se il pescator con la sua rete mi raccogliesse? Che dici? Sparire: partire è un po’ morire. Ispirazion pe’ il vate, poesia immortal per colui, libertà per Teresa. Che questo è il mio nome, sai, mia cara. Troppo banale per l’immaginazion funerea del triste mio poeta.

E’ deciso. Silvia morrà. Prima che mani tremule incerte si posino su la mia pelle, che altro merita, io credo, in verità.
Silvia sen va, Teresa vive. Già feci cenno al bruno pescatore.
Addio, Luigia, d’ispirazion mi fu la tua caduta. Anch’io cadrò. In mani callose e ruvide; ruvide carezze mi risveglieranno.

Al tuo risanamento

Teresa (già Silvia)

In attesa del Gran Botto

Ucraina 24/02/2023

Zelinsky sta finendo la sua carne da macello in età 21/40. Ora sta per mobilitare i più giovani e i più vecchi.
(notizia di oggi sul TG 1!!).
Ma continua a chiedere armi per VINCERE. Chi vorrebbe mandare a riconquistare la Crimea? I ragazzini delle elementari o i pensionati?
In Europa si inizia a discutere di leva obbligatoria. (Come dicevo sarebbe successo un paio di settimane fa, vedi il Fatto di oggi e Linkiesta di ieri). Finiti gli ucraini in età di tenere un fucile, a chi toccherà? Per chi non capisce bene, significa che molte centinaia di migliaia di Ucraini nel fiore degli anni sono morti.
Le continue menzogne sulla sicura sconfitta della Russia cozzano con la realtà che chiunque può verificare sui siti americani dell’ISW (che fa spudoratamente il tifo contro Putin, ma fornisce un’accurata mappa quotidiana del fronte).
L’idea che Zelinsky sia sì eroico, ma anche un esaltato che trascina alla morte due intere generazioni senza alcuna prospettiva di vittoria (parola che mi dà il vomito, perché non vale cumuli di morti ed è pura retorica) forse dovrebbe farsi strada non solo nella vecchia testa di Berlusconi.
Cessate il fuoco subito, è l’unica cosa da chiedere ORA.
Il resto sarà oggetto di trattative (e chissenefrega, francamente).

Corrado Cirio 24/02/2023

Una Voce Impertinente

Nero Bizzarro : Racconti / Gino Benvenuti. Il punto rosso, 2022

Una sera, all’interno di un dibattito nel circolo ricreativo che frequentava, Tullio ebbe modo di dire, facendo anche sorridere, che “l’umanità si divide tra alberi e foreste perché c’è chi guarda l’albero e non la foresta. Bisogna invece guardare la foresta nel suo insieme perché l’albero da solo non conta niente. Bisogna avere sempre una visione complessiva sulle questioni di cui discutiamo” .

Questo gli valse il soprannome di “l’Foresta” quando qualcuno lo salutava ed i soprannomi come si sa sono indelebili, una sorta di tatuaggio che è difficile da cancellare. Se al momento ciò gli fece piacere, adesso gli stava stretto in quanto con il diradare dei suoi rapporti personali viveva sempre sospeso, nelle sue elucubrazioni quotidiane, tra uno spossante rimpianto e le sensazioni di un cupo futuro che questo soprannome riproponeva.

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Napoleone

Dalla serie le Missive impossibili di Sandra Vegni

Lettera di Napoleone Bonaparte (Imperatore)
a Josephine (ex Imperatrice e moglie)

A Marie Josephe Rose Tascher de la Pagerie, Chateau Malmaison, nei pressi di Parigi
Pressi della Beresina (Russia), 24 Novembre 1812

Compagna di giorni felici che mai torneranno
Tu sai, ma chére, e comprendi come sempre hai compreso, le ragion di stato che mi spinsero a chiudere il nostro matrimonio. Il figlio che tu non mi hai saputo dare per sempre ci ha diviso.
Ma l’amore che ci ha unito, i nostri giorni regali e felici ci tengono uniti in un ricordo reciproco che nessuno potrà cancellare. Men che mai l’austriaca, il suo rigido incedere e l’asprezza del suo linguaggio potranno mai sciogliere il gelo che avvolge il mio cuore.

Non solo il mio cuore è avvolto dal gelo, in queste lande desolate coperte di neve dove – ogni giorno più orrendo – assisto al lento sgretolarsi del mio esercito una volta invincibile e lascio alle spalle i più nobili dei miei soldati. Statue di marmo, com’esso bianche, punteggiano il cammino. Nel vuoto degli sguardi, nelle mani rattrappite, nell’immobilità dei corpi io vedo, seppur non ancor deciso, il destino mio e dell’Impero.

A chi, se non a te, amata compagna mia, posso rivolgere queste mie parole. Ultime, forse, non voglio credere, che pronti son tanti prodi a difendere l’Imperatore: soldati fedeli, fedeli combattenti di tante gloriose battaglie. Di quei giorni, di quei ricordi pare oggi fatta la mia vita. Domani penserò alla battaglia, alla difesa di quanti mi restano fedeli e vivi. Domani, alla difesa. Che attacco, ormai, non è pensabile con questi resti di sparute truppe.

Tu lo dicesti, o cara, che questa terra inospitale e inutile mal si ponea alle mie mire di grandezza. A te sola, oggi, lo dico: perché ignorai le tue donnesche parole, perché? Imperator dovevo rimanere nei miei già ampi confini. Queste steppe non conoscevo e la durezza feral del Generale Inverno che va sgominando, uno a uno, i miei soldati.

E ti penso, intenta a coltivar le rose, a quelle opere invernali che più rigogliose le renderanno a primavera. A Malmaison, le bianche mani rifugiate nel manicotto, i riccioli che sfuggon dal copricapo invernale, la mente a me rivolta. Giacché io lo so, Josephine mon amour, dove vanno volando i tuoi pensieri. E li vedo arrivare, nel corpo freddo di un uccello smarrito che, stento, si posa su un ramo secco imperlato di brina e ti penso, mia cara e temo – l’Imperator non ha paura – di non vederti più.

Nessuno vedrà questa mia, e io so che tu, che ancora ai miei ideali e al nostro passato resti fedele, immantinente la distruggerai.
Adieu, ma chère, addio ai nostri incontri silenziosi, alle tue mani allegre strette alle mie. Al tuo sorriso, al ricordo dei tuoi occhi che mai mi abbandonano, i tuoi occhi creoli che mi presero il cuore.
Mai più ci rivedremo, lo so. Sarà che io non torni o torni sconfitto e tradito. Ma giammai io tornerò umiliato. Tu già lo sai. E se la vita mai Iddio mi risparmiasse, io non sarò vinto. Che nel cuore intanto si avanza un coacervo di pensieri. Di riscatto e vendetta. Vedrai.
E mentre la neve si posa in mulinelli vorticosi su questa tenda smarrita nella steppa, io per una volta ancora ti abbraccio e teneramente ti bacio, o mia diletta ed indimenticata sposa.

Napoleon

Il Vecchio e la Bambina

Fabio un pensionato vedovo da oltre quindici anni, conduceva la sua vita senza concedersi particolari piaceri né coltivando grandi aspettative per il suo futuro.

Avere rifiutato ostinatamente di stare con la famiglia del figlio, che si era trasferito in un’altra città, gli comportò lo sfilacciamento dei rapporti con lui diventato nel frattempo padre di due bellissime bambine viste solo nell’unica fotografia inviatagli dalla nuora. La mattina molto presto, una volta stropicciati gli occhi e passato una mano sulla guance scabrose per la barba leggermente lunga, usava dire “anche per oggi mi sono alzato”. Poi come di solito si preparava una fetta di pane con miele o burro ed il latte che riscaldava prima di metterci del caffè preparato da una settimana all’altra.

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A Kira

Gian Luigi Betti

Kira, la giovane Kira, la provocante Kira, l’onnipresente Kira.
Kira comanda la mia casa coi suoi occhi dolci, non ha bisogno di parole.
Io non posso che eseguire ogni suo volere: la sua giovanile vivacità è conforto e dominio alla mia pigra senilità.
La notte scivola nel letto al mio fianco e si stira alle mie carezze con pigra voluttà.
M’invita ad una corsa che più non conosco ma di cui ho rimpianto.
Mi provoca: talvolta s’offre: prona in attesa delle mie carezze e d’improvviso s’allontana per un gioco vezzoso.
Talvolta giace supina, mi guarda e offre il ventre nella posizione del missionario. Le carezzo il volto, la gola, lei risponde mordicchiando le mie mani: quando le mie carezze scendono le trattiene affondandovi le unghie, gli occhi socchiusi nel piacere. Resisto ma quando grido per protesta fa un agile balzo e si allontana da me con aria offesa, la coda ritta.

Gian Luigi Betti, 18/02/2023

Franti

Dalla serie le Missive impossibili di Sandra Vegni

Lettera di Franti (personaggio)
a Edmondo De Amicis (autore)

Al Signor Edmondo De Amicis, scrittore e militare, Torino

Torino (Italia), 19 febbraio 1887

Illustrissimo Signor Autore, Edmondo De Amicis
Non so se mai è capitato che un personaggio scrivesse al suo autore, ma se così non fosse stato, mi pregio oggidì di farlo io.
Ella mi perdonerà, mi credo, qualche scarabocchio e talun errore d’ortografia: brillante lei non mi fece, né studioso. Ammetterà, quindi, che colpa mia non sia la scarsa erudizione. Così ella mi fece, così mi leggerà.

Appunto di questo io voglio dire e sapere perché, per qualsivoglia inclinazione o pretesto letterario, così mi volle in quelle pagine destinate – e di questo mi cruccio e effettivamente non capisco – a popolare i giorni e l’immaginario di moltitudini di generazioni venture. Par che sia d’uopo il regalarlo, non appena gli scolari siano in grado di leggere, a ciaschedun di loro. E ciaschedun, m’è assai evidente, mi detesterà.

Mi fece ‘faccia tosta e trista’: come poteva il mio sorriso suscitare simpatia? Apparvi dal niente, cacciato da un’altra classe. Poteva l’uggioso Enrico descrivere con simpatia la mia figura nel suo uggiosissimo diario? Gli abiti? Logori e sporchi. La famiglia? L’accenno a un padre male occupato e ‘tristo’ anch’egli e la figura dolente di una madre lacera e tremante, malata e piangente … Eh, Signor De Amicis, come sarebbe diventato – lei, lo sputasentenze militareggiante – se il buon Iddio l’avesse creato così come lei si è compiaciuto di creare me?

Facile, per l’Ernesto De Rossi, fare il simpatico! Bello, pulito, benvestito, intelligente, simpatico e brillante, pietoso con i poverelli dei ceti inferiori. E io avrei dovuto essere pietoso con i ceti superiori? Non scherziamo, scrittore. Rifletti un po’. Chi è il cattivo? Io, come tu mi facesti, ovvero tu, che così mi hai fatto?

E, stufo, a metà dello scritto mi hai pure messo d’un canto. Senza darmi possibilità alcuna di riscatto. Condannato fin dalla nascita a un magro destino. ‘Dicono che non verrà più’ scrive l’Enrico ‘perché lo metteranno all’ergastolo.’
All’ergastolo! Un bambino … E magari ti dovrei ringraziare perché non mi hai tolto la vita, come hai fatto con tanti altri, disgraziati bambini. Vuoi che ti ricordi i misfatti? La piccola vedetta lombarda, colpita da una palla nemica; Ferruccio il romagnolo, ucciso per salvar la vecchia nonna, Mario annegato per aver lasciato il suo posto su una scialuppa … e il tamburino sardo, con la gamba amputata, senza anestesia e senza antibiotici?

Io sarei il sadico, o scrittore delle mie scarpe rotte, io perché rido al passaggio della banda militare? Io, il primo vero pacifista della storia. Io che – non si sa perché, i generali hanno divise stirate e lustre e i reduci giacche polverose sporche di sangue e sudore – non mi metto sull’attenti davanti al potere.
Niente, te lo volevo dire. Che il tuo Enrico è di una noia mortale e che tu sei un sadico pericoloso, in specie nei confronti dei bambini. Responsabile della noia di Enrico e della mia cattiveria.

Il cattivo sei tu.

IL CENTRO PIU’ NON C’E’

(La debacle di Calenda alle elezioni Regionali in Lazio e in Lombardia)

Or lo sappiamo, ahimè:
il centro più non c’è:
è un luogo inesistente
che non conta più niente …
Un luogo virtuale
tutt’altro che reale
da Calenda sognato,
del tutto vagheggiato.

La sua Azione è maldestra
fra centro e centrodestra …
e punta sul bersaglio
al centro, ma è uno sbaglio …
La sua freccia lui tira,
ma poi manca la mira
perché … perché … perché …
il centro più non c’è!

Così Carlo sparisce,
nell’aer tosto svanisce.
Ha rincorso un miraggio
mostrando gran coraggio,
ma come don Chisciotte
esce con le ossa rotte
e sembra, là per là
il noto Perelà,
l’omino evanescente
fatto di fumo e … niente.

Come Icaro vuole
volare fino al sole
con le ali di cera …
ma insegue una chimera …
e il giorno del gran voto
precipita nel vuoto.

E’ questo il sogno infranto
di chi ha osato tanto
ponendo, da gran fesso,
al centro sol se stesso
per poi scoprire che
il centro più non c’è!

Anna Maria Guideri, 15-02-2023