Quando l’anzianità non è saggezza

«Ahi serva Europa, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!»

quasi Dante

Per la guerra Russo-Ucraina il Parlamento europeo dichiara la Russia “stato terrorista”. Gli Usa, che hanno preparato incentivato e sostenuto la guerra e che da questa sono gli unici a trarre benefici, non l’hanno fatto.
Con il prolungarsi del conflitto aumenta il rischio di una guerra nucleare. La maggior parte dei paesi getta acqua sul fuoco, la vecchia Europa preferisce gettare benzina, anche se gliene rimane davvero poca.

Più realisti del re

di Fabrizio Marchi da Sinistrainrete

Il Parlamento europeo ha votato una risoluzione che riconosce “la Russia come stato terrorista”. La risoluzione è stata approvata a larghissima maggioranza (494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni)
E’ evidente che siamo in una fase storica dominata dalla irrazionalità e dalla irragionevolezza. Verrebbe spontaneo chiedersi – se tanto mi dà tanto – come dovrebbero allora essere definiti stati come la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele che praticano terrorismo sistematico contro i popoli curdo, yemenita e palestinese. Ma anche gli stessi Stati Uniti che hanno organizzato in tutto il mondo colpi di stato che hanno rovesciato legittimi governi democraticamente eletti, instaurato dittature, finanziato organizzazioni terroriste, bombardato indiscriminatamente civili con armi chimiche, organizzato centri di addestramento per torturatori di tutto il mondo. L’elenco degli stati terroristi potrebbe essere molto lungo.

Il paradosso (apparente) è che gli stessi Stati Uniti stanno andando cauti rispetto a questa dichiarazione. L’ambasciatrice generale degli USA per la giustizia penale internazionale, Beth Van Shack, ha infatti dichiarato che “la nostra legislazione dà una definizione leggermente diversa da quella europea. Ad essere onesti, la Russia semplicemente non rientra nella definizione di uno stato sponsor del terrorismo”.
Casuale? Non credo, forse un gioco delle parti, per la serie “facciamo abbaiare i cani, e noi ci teniamo aperto uno spiraglio diplomatico”.
La UE non esiste come entità politica, ormai dovrebbe essere evidente anche agli occhi dei più ingenui. La pochezza e Il servilismo della sua classe dirigente (un ceto di burocrati e tecnocrati privi di ogni autonomia e dignità politica) ha pochi precedenti nella storia europea.
Ci tocca rimpiangere il generale De Gaulle. Non sarebbe mai arrivato a tanto…

Fabrizio Marchi è anche l’autore di: Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta / Fabrizio Marchi. Zambon Editore, 2018 EAN 9788898582686

Anima veneta

da Facebook

Alla facoltà di medicina, il professore si rivolge ad uno studente e gli chiede:
– “Quanti reni abbiamo?”
– “Quattro!”, risponde lo studente.
– “Quattro?”, replicò il professore, arrogante; di quelli che provano piacere nel calpestare gli errori degli altri.
– “Portate un po’ d’erba, perché abbiamo un asino in sala”, ordinò il professore al suo assistente.
– “E per me un caffè!”, replicò lo studente all’assistente del maestro.
Il professore si arrabbiò a tal punto che espulse l’alunno dall’aula.
Lo studente era, l’umorista Aparicio Torelly Aporelly (1895-1971), noto come il ′′ Barone de ltararé “.
All’uscita dall’aula, ancora lo studente ebbe l’audacia di correggere il furioso professore: “Mi ha chiesto quanti reni abbiamo? ‘Abbiamo’ quattro reni: due miei e due suoi.
“Abbiamo” è un’espressione usata per il plurale. Buon appetito e si goda l’erba”.
La vita richiede molta più cultura e capacità di ragionare che conoscenza.
Non serve a nulla una laurea se non sai parlare e ragionare, specialmente se pretendi di insegnare!
Sentimenti Moderni

Tra Regione diffusa e ragione ristretta

Da Il Corriere fiorentino del 24/11/2022 saccheggiamo

Il caso Alinari

la toscana confusa del giani

Franco Camarlinghi

«Il sonno della ragione genera mostri» è il titolo di una famosa acquaforte di Francisco Goya e quasi tutti una volta o l’altra l’hanno sentito dire. Nel pensare alla nuova querelle insorta sulle dichiarazioni di Eugenio Giani a proposito dell’archivio Alinari, viene da ricordarne una modifica, assai meno nota, ma quanto mai pertinente, inventata da qualcuno anni fa: «Il sonno della Regione genera mostre». Per essere breve: la Regione saggiamente acquistò l’archivio per difendere e valorizzare un patrimonio assolutamente identitario di Firenze e di conseguenza della Toscana, visto che di quest’ultima la città di Dante fa parte e ne dovrebbe essere la capitale. Come sempre succede: fra la tempestiva decisione dell’acquisto e una sistemazione efficace passa il tempo e qualcuno alla fine se ne ricorda se capita. Il versatile governatore se ne è ricordato cercando una soluzione per il rilancio di Montecatini e ha proposto di fare della fu città termale la città dei Fratelli Alinari. Alcuni, a cominciare dal sindaco Dario Nardella, hanno dichiarato il loro dissenso: gli Alinari fondarono la loro impresa, la prima al mondo per la fotografia a Firenze. Il loro erede Vittorio lasciò una traccia indelebile nella storia culturale fiorentina del ‘900. Tutto ciò è talmente attuale che, anche senza i clamori tipici degli inutili eventi coltivati dal pubblico e dal privato di questi tempi, proseguono gli studi e le ricerche su una vicenda storica così significativa come quella di cui parliamo.

Anche un noto cultore di tradizioni locali, quale è Giani, si deve essere accorto che non è tanto giustificabile portare via da Firenze qualcosa che, come poche altre, ne definisce un’identità moderna, o anche meglio contemporanea e che non ha niente a che vedere col provincialismo che spesso affligge le cosiddette città d’arte. Allora il nostro eroe fa un po’ marcia indietro e si limita a proporre di fare di Montecatini la città della fotografia in Toscana, utilizzando solo una parte dell’Archivio Alinari in maniera permanente e, finale ovvio, organizzando mostre. «Il sonno della Regione che genera mostre» appare quanto mai appropriato: qualcuno non si è accorto che a due passi, a Lucca, si tiene la biennale della fotografia con sempre maggiore successo? O che a Siena ha luogo un altro Festival dedicato alla fotografia di assoluto rilievo! Si capisce che i tempi sono difficili e che l’ipotesi presidenziale di utilizzare gli Alinari per una «Toscana diffusa» possa diventare più facilmente per una «Toscana confusa». Perdere il rapporto con l’origine di una vicenda culturale e anche economica, come è stata quella degli Alinari, non solo mortificherebbe una città sempre più ridotta alla monocultura turistica, ma diminuirebbe la stessa capacità di un patrimonio, inconfondibile, nel rappresentare un valore speciale agli occhi del mondo, di Firenze, della Toscana e dell’Italia. Un valore che in tante occasioni si è dimostrato appartenere alla sensibilità popolare: una per tutte fu la riscoperta dell’Archivio da parte dei fiorentini al Forte di Belvedere nel 1977. Chi c’era, come chi scrive, ricorda con commozione l’entusiasmo dei visitatori che nelle foto trovavano la chiave per capire la città e la loro stessa identità. Nell’Archivio c’è molto di più di quanto sopra e allora si cerchino soluzioni per rendere accessibile allo studio e alla ricerca tale ricchezza che non va dilapidata utilizzandola solo per un’uniformazione turistica o magari mettendola in un pacchetto per i tour operator: che poi sia per Montecatini o per Firenze non cambia molto.

Archivi Alinari un altro contributo

Da La Nazione del 25/11/2022: continuiamo a saccheggiare

Archivio Alinari Le fotografie dello scandalo

Giovanni Morandi

Sono anni che si parla di dare una sistemazione all’archivio Alinari, momentaneamente (da anni) accatastato in un capannone di Calenzano. C’è qualcuno disposto a scommettere che il problema sarà risolto in quindici giorni? Tanto è il tempo rimasto a disposizione da qui al 9 dicembre, che è la scadenza indilazionabile fissata dal tribunale. Il tempo passa e solo un anno fa si dava per certo che l’archivio, ovvero 5 milioni di foto lasciateci dai geniali fratelli, sarebbe stato sistemato a Villa Fabbricotti. Adesso si pensa di mandarlo a Montecatini dove ci sono gli ex stabilimenti termali desolatamente vuoti perché travolti da una crisi senza precedenti. L’idea è del governatore Giani il quale ricorda che è stata la Regione ad acquistarlo per 12 milioni ed è logico che spetti alla Regione sceglierne la destinazione. E in questi termini la questione più che sbagliata è mal posta, perché sa tanto di cummenda milanès che reclama di fare quel che vuole perché i danè sono suoi. La questione invece va posta in questo modo. Ha senso trasferire fuori Firenze un patrimonio che ha un suo particolare legame con la città, sia storico che artistico? In termini pratici la soluzione della Regione andrebbe bene perché risolverebbe la locazione dell’archivio e l’utilizzo dello stabilimento termale di Montecatini. E però è giusto chiedersi se le foto degli Alinari servirebbero davvero a risolvere i problemi di Montecatini e allo stesso tempo se Montecatini sarebbe la giusta soluzione per gli Alinari o soltanto un nuovo, ennesimo e temporaneo trasloco di scatole piene di foto. Davvero avrebbe la capacità di essere un credibile richiamo turistico? Sono domande a cui è difficile bastino due settimane per avere delle risposte. Così ci sono buone probabilità che anche l’archivio resti uno dei problemi che si rinviano da un anno all’altro. Abbiamo un tesoro della storia della fotografia e da anni ne parliamo come fosse un problema, non un’opportunità. L’Archivio Alinari è una sorta di Uffizi della fotografia, il più antico archivio fotografico del mondo e noi lo trattiamo come fosse un’ingombrante eredità, di cui avremmo voluto fare a meno. Siamo miopi e ingrati. In una precedente crisi, agli inizi del secolo scorso, per salvare questo archivio il cui futuro era stato compromesso dalla guerra, si mobilitarono gli aristocratici toscani con in testa il barone Ricasoli, l’erede di Bettino, e riuscirono nell’intento. Ma quelli erano altri tempi e altri uomini.

Per gli archivi Alinari un futuro diffuso ma col cuore a Firenze

Giorgio van Straten (Presidente della Fondazione Alinari per la fotogradia

da La Repubblica del 25/11/2022 continuiamo il saccheggio

Il presidente della Fondazione che gestisce i 5 milioni di immagini: “ Ci sono parti che possono essere trasferite, ma il nucleo centrale sarà a Villa Fabbricotti”

Credo sia giunto il momento di fare chiarezza su cosa sono oggi gli archivi Alinari, e dico oggi perché gli archivi, a differenza di quello che si può pensare, non sono realtà statiche, ma si evolvono, si allargano, si ridefiniscono.
Quella parte storica che è così strettamente collegata all’identità fiorentina (ma che costituisce un riferimento per la storia mondiale della fotografia) e che, come giustamente è stato detto, non può muoversi dalla città che l’ha vista nascere, l’immenso patrimonio di negativi su lastra di vetro, rappresenta con i suoi 250.000 pezzi solo il 5% dell’attuale complesso di archivi e fondi, che numericamente conta 5.000.000 di oggetti fra fotografie, libri, apparecchi fotografici e documenti.
L’ultima proprietà, quella della famiglia De Polo che ha posseduto gli archivi per quarant’anni, ha proceduto a numerose acquisizioni. Molte di queste sono strettamente connesse alla storia della fotografia delle origini e quindi inscindibili dal nucleo iniziale (per esempio la straordinaria collezione di dagherrotipi o quella degli album, il fondo von Gloeden e la bellissima biblioteca), ma altre parti rimandano a storie e identità completamente diverse.
Faccio due esempi. La Regione Toscana possiede (e la Fondazione Alinari per la Fotografia, che io presiedo, gestisce e valorizza) l’archivio Villani, 500.000 pezzi, comprati da un fallimento dello studio fotografico che ha rappresentato per buona parte del Novecento la fotografia a Bologna.
Claudio De Polo, dopo averlo acquisito e lasciato nel capoluogo emiliano per qualche anno, lo spostò a Firenze unicamente per ragioni di contenimento dei costi.
Oggi si è aperta una interlocuzione con la Regione Emilia-Romagna e la cineteca di Bologna per ristabilire un rapporto organico con la sua città di origine, condizione necessaria per poterlo valorizzare attraverso la digitalizzazione e la catalogazione. Dipendendo solo da noi dovrebbe aspettare decenni, perché le priorità del nostro lavoro si appuntano sui nuclei storici emaggiormente identitari degli archivi Alinari (approfitto dell’occasione per dire che, grazie ai fondi del Pnrr, insieme alla Regione Toscana digitalizzeremo e catalogheremo 150.000 lastre storiche degli archivi Alinari e Brogi).
Secondo esempio: l’archivio Team, un grande archivio di fotogiornalismo (circa 1.000.000 di foto fra negativi e positivi), relativo alla seconda metà del Novecento. Il fotogiornalismo è una branca specifica della fotografia, non collegata alla realtà Alinari che, nella sua attività, nonsi è mai posta il problema di fotografare eventi, ma luoghi, persone, beni culturali, in una dimensione artistica e antropologica, mai di cronaca. Il tema è di grande interesse e non mi scandalizza l’idea di collocare questo archivio in una località toscana come Montecatini, dove iniziare un’attività specifica, anche espositiva, sul fotogiornalismo, in dialogo con le esperienze contemporanee. Penso che sia una scelta che può essere fatta senza polemiche e contrapposizioni e senza eccessivi timori, perché, oltretutto, a vigilare c’è una soprintendenza archivistica competente e sollecita.
Riassumendo: la sede principale degli archivi, quella legata al patrimonio storico, e il Museo non possono trovare casa se non a Firenze, ma con altri fondi si può iniziare un lavoro di diffusione culturale che costituisce arricchimento e non perdita.
Piuttosto è necessario procedere speditamente alla predisposizione delle sedi fiorentine, perché, per quanto la digitalizzazione renda più facile l’accesso al patrimonio, l’immaterialità non può sostituire lo studio e la fruizione degli oggetti fisici: abbiamo bisogno di Villa Fabbricotti , che la Regione ha messo a disposizione per gli archivi e gli uffici della fondazione (si stanno facendo in questi mesi gli ultimi rilievi e sondaggi propedeutici alla progettazione esecutiva) e di Santa Maria Novella, dove, insieme al Comune di Firenze, abbiamo individuato gli spazi per la collocazione del Museo Alinari, sperando che, in questo ultimo caso, si possano trovare rapidamente le risorse per il ripristino dell’edificio e per il successivo allestimento museale.
L’autore è presidente della Fondazione Alinari per la fotografia

Sono comunista

Alessandro Barbero

“Secondo me essere comunisti dipende in parte appunto dalla tua memoria, e quindi dalle tue vicende personali, da quello che ti è rimasto impresso di quelle vicende personali.

Io sono diventato comunista semplicemente perché sono cresciuto in una famiglia cattolica, borghese, moderata, non più fascista al tempo dei miei genitori, tutt’altro, ma i nonni lo erano stati, e un certo imprinting si sentiva. Una di quelle famiglie in cui si sentiva “Mah, in fondo i partigiani non hanno fatto granché di importante” e così via. E poi al liceo ho conosciuto un compagno che invece era di famiglia comunista e ho scoperto una casa strapiena di libri, un’abitudine alla discussione, di tutto, tra padre madre figli, a ragionare su tutto, che non era qualcosa a cui io ero abituato, e sono rimasto affascinato da questo. Ho conosciuto quel mondo e c’è stato, come dire, un precipitato chimico per cui a partire da quel momento ho sentito che quel sistema di valori a me piaceva, che mi ci identificavo.

Con cosa mi identificavo? Con un sistema di valori che pensa che la disuguaglianza nella società è una brutta cosa e che bisogna cercare in tutti i modi di ridurla. Mentre invece c’è chi pensa che la disuguaglianza è naturale, inevitabile e che è stupido combatterla, per esempio, no? Con un sistema di valori che pensa che, benché il capitalismo si sia rivelato capace di produrre grande benessere, grande libertà, in certi luoghi e in certi momenti, però scoprire un modo di superarlo e di creare un sistema più giusto sarebbe una cosa bellissima.

Capisci? È questione di come tu a pelle poi reagisci a una serie di situazioni. Quando io studio la storia del comunismo e vedo generazioni di persone che hanno creduto a questa cosa, e che sono stati capaci di correre rischi spaventosi e di sacrificare tutto per questa utopia; e poi quasi dappertutto quando sono andati al potere non l’hanno realizzata, e anzi, hanno fallito e hanno creato sistemi a volte criminali, a volte semplicemente e scioccamente oppressivi, ma comunque fallimentari alla fine. Ecco, io in tutto questo vedo un’immensa tragedia che mi rende molto triste, perché penso con adesione personalmente alle generazioni e generazioni di esseri umani, in genere operai sfruttati e operaie sfruttate, che hanno creduto che fosse possibile inventare qualcosa, un mondo diverso. Un mondo nuovo e un mondo più uguale. C’hanno creduto, molti sono morti per questo, e poi questa cosa si è rivelata invece un fallimento. E a me quelli che ci hanno creduto non appariranno mai né degli schifosi rossi né degli stupidi illusi, ma gente con cui io mi sento di identificarmi, che rispetto profondamente, ecco. In questo senso.

E allora il risultato è naturalmente che anche là dove il comunismo è stato creato, uno non chiude mica gli occhi davanti agli enormi crimini. E però questo non basta per far sì che una stella rossa o una falce e martello per me diventino dei simboli che mi suscitano orrore.

Non potrà mai essere così.”

ALESSANDRO BARBERO, intervistato dal direttore di “Archeologia viva” Piero Pruneti alla Maratona di Lettura 2022 di Feltre.

Io sono comunista

Nazim Hikmet

Io sono comunista
Perché non vedo una economia migliore nel mondo che il comunismo.
Io sono comunista
Perché soffro nel vedere le persone soffrire.
Io sono comunista
Perché credo fermamente nell’utopia d’una società giusta.
Io sono comunista
Perché ognuno deve avere ciò di cui ha bisogno e dare ciò che può.
Io sono comunista
Perché credo fermamente che la felicità dell’uomo sia nella solidarietà.
Io sono comunista
Perché credo che tutte le persone abbiano diritto a una casa, alla salute, all’istruzione, ad un lavoro dignitoso, alla pensione.
Io sono comunista
Perché non credo in nessun dio.
Io sono comunista
Perché nessuno ha ancora trovato un’idea migliore.
Io sono comunista
Perché credo negli esseri umani.
Io sono comunista
Perché spero che un giorno tutta l’umanità sia comunista.
Io sono comunista
Perché molte delle persone migliori del mondo erano e sono comuniste.
Io sono comunista
Perché detesto l’ipocrisia e amo la verità.
Io sono comunista
Perché non c’è nessuna distinzione tra me e gli altri.
Io sono comunista
Perché sono contro il libero mercato.
Io sono comunista
Perché desidero lottare tutta la vita per il bene dell’umanità.
Io sono comunista
Perché il popolo unito non sarà mai vinto.
Io sono comunista
Perché si può sbagliare, ma non fino al punto di essere capitalista.
Io sono comunista
Perché amo la vita e lotto al suo fianco.
Io sono comunista
Perché troppe poche persone sono comuniste.
Io sono comunista
Perché c’è chi dice di essere comunista e non lo è.
Io sono comunista
Perché lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo esiste perché non c’è il comunismo.
Io sono comunista
Perché la mia mente e il mio cuore sono comunisti.
Io sono comunista
Perché mi critico tutti i giorni.
Io sono comunista
Perché la cooperazione tra i popoli è l’unica via di pace tra gli uomini.
Io sono comunista
Perché la responsabilità di tanta miseria nell’umanità è di tutti coloro che non sono comunisti.
Io sono comunista
Perché non voglio potere personale, voglio il potere del popolo.
Io sono comunista
Perché nessuno è mai riuscito a convincermi di non esserlo.
Nazim Hikmet

Caterina 5

Era il tempo in cui andavano scoprendosi, raccontandosi le loro vite, interrogandosi.
– E ti sentivi solo?
– Mi mancavi tu.
– Ma solo rispetto al resto del mondo?
– No. Perché? Avevo sempre qualcosa da fare con altra gente: ho colto frutta, ho potato, ho studiato filosofia con l’Abate, mi sono battuto coi pirati. Non è così per tutti?
– Tu solo sei così, perciò ti amo.
Ispirato a “Il Barone rampante”, I.Calvino.
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Incontri ravvicinati del terzo tipo

di Gian Luigi Betti

Su FB mi trovo spesso a polemizzare con ex compagni del fu pci ed adesso non compagni tout court ma in evidente crisi col loro passato. Una categoria a me particolarmente fastidiosa è quella degli apostati militanti. Erano iscritti al pci e qualcuno perfino comunista ed ora odiano il comunismo e tutto ciò che puzza di sinistra, accampano la superiorità della società aperta e demonizzano chiunque non la pensi come loro, richiamano la democrazia e richiedono il decisionismo e sono intolleranti nei confronti delle opposizioni, si dicono riformisti e accettano e fanno propri tutti i dictat del liberismo degli oligopoli. Ma soprattutto strillano come oche spennate, mai un cenno d’intelligenza (da intelligere) che argomenti le loro posizioni. Che si tratti di esseri alieni naufragati sul nostro pianeta? Poveri piccoli esseri che come ET sono alla ricerca di una casa. In questo assomigliano a tutti noi altri ex: solo che noi non vogliamo andare a pigione.

Tra questi, a mo’ d’esempio esplicativo, alcune riflessioni a margine di un recente duetto

Gian Luigi Betti

Caro RF Mi sembrava che tu esaltassi il modello di partito con uno che decide senza tutte le chiacchere che inibiscono l’azione. E’ una stessa considerazione che ho trovato nel se dicente vecchio signore ma per me prof. FA quando lamentava, su FB, che a sinistra chiacchere chiacchere. Anche io condivido la riprovazione nei cfr dell’eterna discussione e relativa divisione e conseguente inazione e irrilevanza politica che sembra affliggere la sinistra fin dal suo nascere. Forse è un tributo alla vocazione razionale e antidealistica che ha contraddistinto tutta la sua storia (almeno a livello dei teorici pensatori). Il Veltronismo che tu richiami, a quanto ricordo, nella sintesi, era riassumibile nella formula: si corre da soli, si vince e poi si fa quello che vogliamo senza compromessi. Grande idea ma modesto programma politico, stante i risultati. Oggi la storia si ripete, a mio avviso, nell’ostracismo anti 5 stelle (che, ti assicuro, sono ben lontani da qualunque mio modello teorico ed ideale). E aggiungo, nell’antilandinismo … nell’anti -tutto, soprattutto se puzza di sinistra, tutti contro, meno me (anche se il me sembra abbastanza confuso a quanto leggo). Quindi al di là della comprensione del tuo pensiero (su questo strumento di mmmmerrddda di fb non riseco mai ad essere sicuro con chi parlo di cosa parlo e se posso parlare con chi voglio -ringrazia il modello liberorwelliano dell’oppressore americano) ribadisco che esiste una sola via percorribile per tentare di recuperare qualche istanza di democrazia in questa fase di dissoluzione non solo dei valori ma delle stesse istituzioni fondanti la democrazia costituzionale italiana. Partiti veri (con regole di controllo autoritativo, tenuti almeno al rispetto delle norme che regolano un condominio, e politico (come selezione e fucina delle élite di governo del paese). Ovviamente un modello virtuoso come quello che auspico comporta la presenza di partiti e non di bande, una certa autonomia dei partiti dai finanziatori, una discussione sempre pressante vivace e anche accesa, un’accettazione dei risultati da parte di tutti sulla base della maggioranza espressa. Ovviamente in un sistema che tiene conto dei livelli gerarchici e territoriali. Un gruppo dirigente competente, con senso dello Stato e del bene comune ma sempre sottoposto al giudizio del partito e della socità. Ho riflettuto molto su questo tema: mi viene in mente un solo esempio: il centralismo democratico. Che ne dici? e soprattutto che c’entra con Renzi o il Pd o il terzo polo?

Gino Benvenuti

Ho letto quanto ha scritto Gian Luigi e nel suo intervento pone alcune questioni ma io mi limiterò a quanto concerne al rapporto tra dibattito politico e sua concretezza operativa. Quando stigmatizza i limiti “ dell’eterna discussione e relativa divisione” che comporta una “ conseguente inazione e irrilevanza politica” mi trova completamente d’accordo.
Bisogna chiedersi però: perché si assiste a questa infinita discussione nell’organismo politico erede maggioritario di quello che fu il PCI? Perché anche in formazioni alla sinistra del PD si trova difficoltà ad elaborare una riflessione che riesca a condensarsi in un obbiettivo politico di fase? .
Quando si discute molto e non si conclude alcunché penso che ciò avvenga per lo smarrimento di categorie fondanti l’identità di una sinistra degna ti tale nome e non perché si discute troppo in quanto proprio l’essere di sinistra non comporta la pigrizia o l’avversione verso la dialettica che ci può aiutare a crescere. Sarò provocatorio perché considero essa è un dato costitutivo, un tratto ineliminabile di cui andare fieri, quindi la sinistra non è stata sconfitta perché ha “chiacchierato troppo e fatto poco” bensì perché non ha discusso a fondo sul cambiamento epocale degli scenari politici. La carenza o deficit di confronto sono valsi anche per Rifondazione comunista, che magicamente riapparivano però solo alla vigilia delle elezioni amministrative o politiche fossero. Questo progetto politico, a cui ho aderito pur provenendo dalla nuova sinistra, è fallito dato che per molti aderenti è stato vissuto con debilitante nostalgia del “come era verde la mia valle” e recondito desiderio di ricongiunzione con il partito da cui erano fuorusciti, il tutto nutrito con categorie, giudizi e comportamenti politici datati, in un’ottica vetero-politicista ritenuta intoccabile ed intaccabile, avversa ed ostile a qualsiasi istanza proveniente dai movimenti, senza sperimentare quindi una nuova forma partito.
Si deve sempre tener presente come e chi si vuole socialmente rappresentare ed allora sorge spontanea una domanda: valeva la pena di gettare a mare un patrimonio fatto di valori, analisi approfondite su categorie fondamentali, con riferimenti ideologici pregnanti anche se suscettibili di un aggiornamento per approdare gradualmente ed in maniera irreversibile al filone liberal-democratico? Che c’entra Dahrendorf con Marx? Come dire volgarmente cosa “c’entra il culo con le quarant’ore ?”.
Il risultato è stato disarmare, nel nostro “quotidiano agire”, una realtà per cercare di costruirne un’ altra sulla base del “pensiero debole” e del “partito leggero” aderendo di fatto all’attacco concentrico contro le grandi narrazioni del XX secolo, custodi di memoria storica, solidarietà generazionale e diritti sociali. L’irruzione e l’invadenza nel panorama sociale dei social e dei media ha amplificato con successo un’opera di disarticolazione sociale mirata e chirurgica. Chi non ricorda il ritornello dispregiativo “ ma questa è ideologia” per indicare astratta qualsiasi critica al sistema vigente o alle scelte politiche immediate senza entrare nel merito? .
In realtà qualsiasi critica veniva respinta perché proveniva da un sistema di valori non gradito e con questo escamotage di fatto l’unica ideologia rimasta è stata quella del capitale. Se negli anni 70/80 si parlava di tardo-capitalismo, capitalismo maturo nel decennio successivo si è cominciato a parlare di post-capitalismo senza se bastasse una ridefinizione nominale ad eliminare i rapporti di uno sfruttamento che a raggiunto livelli ossessivi.
Tutto ciò ha comportato in maniera strisciante o palese una resa incondizionata, vissuta in certe situazioni o come una “liberazione” o come una forma di rigetto rispetto ad un’eredità culturale e politica impegnativa.
Un vecchio proverbio dice “chi dà retta al cervello altrui si può friggere il suo” che si attaglia perfettamente alla sindrome di Zelig secondo cui quella che è stata la parte preponderante della sinistra storica ha modificato passo dopo passo la propria identità, in questo caso politica, adeguandola alle logiche del pensiero unico mentre la sinistra alternativa si è semplicemente frantumata. Siamo al paradosso: nel momento in cui aumentano nel paese nuove povertà, in una crisi che è di dimensioni mondiali, con la riduzione di spazi democratici e diritti civili ed una situazione ecologica allarmante, si assiste al livello più basso di riflessione ed iniziativa politica; questa scarsa incisività politica su temi di rilevante importanza ha avuto come risultato quello di consegnare alle destre la protesta ed il disagio sociale. Inutile lamentarsi del populismo quando si è rinunciato al radicamento sociale e all’ascolto dei problemi dei settori sociali subalterni. Con questa metamorfosi che ha seminato disorientamento e sfiducia anche discutere diventa un’ impresa e i dibattiti sono inevitabilmente inconcludenti. Non sarebbe quindi l’ora di lavorare ad una nuova Bad Godesberg all’incontrario? Ma per fare questo bisogna sapere subito e senza tentennamenti chi vogliamo rappresentare; da questo non si può prescindere. Con questo intento si semplifica il compito e si dissolvono i dubbi

Zombie col cellulare

Nell’enciclopedia Treccani il neologismo ’smombie’: chi guarda lo smartphone mentre cammina

Smombie in Vocabolario – Treccani

ROMA A chi non è capitato di passeggiare sul ciglio della strada, su un marciapiede, in pieno centro con gli occhi fissi sullo smartphone? A questo fenomeno che sta dilagando, la versione on line di Treccani ha deciso di attribuire un nome: smombie, una parola utilizzata per la prima volta in Germania nel 2008 ed eletta parola dell’anno nel 2015 dal dizionario del tedesco edito da Langenscheidt. Per l’Italia, si tratta di un neologismo che fotografa una questione sociale che riguarda grandi e piccini e che, talvolta, rischia di trasformarsi in un pericolo di non poco conto. La parola smombie è figlia dell’unione tra i lemmi smartphone e zombie. In buona sostanza, quando camminiamo senza alzare lo sguardo da ciò che succede nelle chat di WhatsApp o sui social appariamo come zombie smartphone-dipendenti.A questo spettacolo quantomeno grottesco, deve essere aggiunto il fatto che non guardarsi intorno quando si cammina per strada comporta un minor controllo della situazione circostante e soprattutto una minore percezione del rischio. Per non parlare poi dell’alienazione. Un metaverso nel metaverso, verrebbe da pensare, che ha tutta l’aria di essere in grado di generare un cortocircuito di certo non sottovalutabile anche rispetto agli impatti psicologici di un simile comportamento. Che gli smombie possano, in un futuro prossimo, essere passibili di sanzioni esattamente come lo sono gli automobilisti beccati con lo smartphone in mano? Affermarlo è difficile, ma c’è da augurarsi che l’operazione promossa da Treccani possa almeno rendere anche le italiane e gli italiani sempre più consapevoli di un rapporto squilibrato con lo smartphone