In Italia c’è un grosso problema di decremento demografico. Per contrastarlo occorrerebbe una sicurezza del lavoro, aiuti alle famiglie, servizi pubblici garantiti come nidi, asili, scuole ecc. Occorrerebbe anche riconoscere i bambini nati in Italia da genitori privi della nazionalità italiana, lo ius soli. Occorrerebbe anche aiutare l’inserimento degli stranieri che già lavorano in Italia e sono inseriti ma privi della cittadinanza. Occorrerebbe evitare la fuga dei cervelli favorendo l’inserimento nelle strutture produttive e di alta qualificazione dei laureati e specializzati per i quali abbiamo investito del bel denaro pubblico e che poi vanno a regalare la loro conoscenza e competenza all’estero. Bisognerebbe dire a chi parla di invasioni da contrastare che è un fascio/leghista di merda che evoca solo spettri per i più ignoranti (il simile conosce il simile).
Il 26 febbraio 2021 varcavo per l’ultima volta il portone d’ingresso in Via Leopoldo Serra a Trastevere come funzionario della FILCAMS-CGIL. La prima volta che ero passato da quell’ingresso era stato nel 1986 per partecipare ad una riunione della CGIL università. Dal 1988 al 1991 ebbi al primo piano l’ufficio come segretario nazionale del SNU-CGIL. Mai avrei pensato che in quel palazzo e ad un diverso piano sarebbe ritornato ad essere la mia sede di lavoro, proprio in quella categoria per la quale fui eletto per la prima voplta delegato di CdA nel 1982.
Dal 1 marzo 2021 sono in pensione.
Ho lasciato compagne e compagni con cui ho lavorato fianco a fianco, un apparato “tecnico” che mi ha sopportato con i miei casini e il resto, le compagne e i compagni RSU e RSA con cui ho avuto l’onore di collaborare in tutti questi anni.
La prima cosa che ho fatto, quando ho presentato domanda di pensione è stato sottoscrivere la delega di adesione allo SPI-CGIL
Sono rimasto militante della CGIL. Resto della sinistra sindacale.
da Facebook l’arte di Marco Marchiani
La vita è sogno…o menzogna (?)
Il sogno è la vita dei ricordi e ai ricordi fa prendere corpo.
Gli anni, gli uomini e i popoli fuggono via per sempre come l’acqua fluente. Nel dúttile specchio della natura le stelle fan da rete, noi da pesci, i numi sono spettri in grembo al buio.
Edmund de Waal Un eredità di avorio e ambra Bollati Boringhieri 2022 ISBN 978-88-339-4041-0
Non c’è una trama vera, eppure hai difficoltà a smettere di leggere, non è un libro di storia, ma la storia di molte vite; legate insieme da un vincolo di sangue e dalla fede religiosa, seppur separate nel tempo e nei luoghi.
Il filo conduttore è la ricerca, a ritroso nel tempo, della provenienza di un insolita eredità che passa di mano in mano, da paese a paese ed arriva a un lontano pronipote, nei nostri tempi: una collezione di minuscole statuine provenienti dal Giappone, intagliate nel legno o d’avorio, rappresentanti animali o persone, vere e proprie opere d’arte, che divengono oggetti ricercati, anche se mai capiti a fondo, nell’ Europa di fine ottocento. Sono i “netzuko”.
Si dipana così un quadro della società, della cultura, dell’arte e della politica dei tempi narrati, che vanno da poco prima della guerra franco prussiana, attraversano la belle époque, e le due guerre, arrivando alla fine del ‘900. Gran parte della storia si svolge tra Parigi e Vienna, ma inizia a Odessa e finisce a Londra passando anche per Tokio, città del Messico e New York. Sono le città e la vita della società ad essere descritte, così come sono narrate le singole persone, ma lo sfondo del tempo è palpabile. Sfilano, nel contorno, grandi personaggi: da Proust a Renoir, da Degas a Monet, da Freud ad Adler da Rilke a Musil.
Il tema di sottofondo del romanzo è l’antisemitismo, che prima appare nelle pagine parigine con l’affaire Dreyfus, poi emerge a Vienna sul finire della grande guerra ed esplode poi, ancora a Vienna, con la popolazione festante per l’annessione alla Germania di Hitler; ma si guarda anche alla condizione femminile del tempo, confinata nei ruoli frivoli o domestici, con la difficoltà di intraprendere studi universitari e carriere professionali anche nelle classi più fortunate. Poi la grande guerra, la dissoluzione dell’impero Austrico e la conseguente crisi economica, che introducono le pagine dedicate ai giorni dell’annessione alla Germania ed all’arrivo di Hitler accolto in trionfo, dove si dipinge una Vienna rovesciata, ormai non più ordine, tranquillità, sicurezza, ma arroganza, violenza, rancore, ignoranza culturale che diviene la cifra della città, e si percepisce il clima di smarrimento e la paura degli israeliti, cui rimane l’unica speranza di poter fuggire.
Il tono all’inizio neutrale, da storico, si fa emotivo; l’autore racconta con affanno, emozione, coinvolgimento i maltrattamenti, gli abusi, le inutili angherie, le spoliazioni, legalizzate, di tutti i beni, che non solo le truppe naziste, ma anche parte della popolazione, infligge ad altri uomini, agli antenati dell’autore; maltrattamenti ed angherie ripetute. Poi il tono da disperato diviene rassegnato: al posto degli occupanti nazisti ci sono gli alleati liberatori agli Asburgo si sostituisce la Repubblica; ma non è cambiato niente anche se tutto è cambiato.
Un lenzuolo bianco copre le colpe di chi ha sostenuto la svastica, ed i diritti di chi quella svastica l’ha subita. Todos caballeros nell’Austria del 1945: la nazione Austriaca si presenta come la prima vittima del nazismo, perché rivangare il passato? chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Comincia una nuova era con nuovi valori, quelli che l’America esporta in Europa, in Giappone, nel resto del mondo. Il tono torna pacato, e malinconico: la grande famiglia, dispersa in tante e diverse nazioni e città, ha cercato ovunque di integrarsi, ma non sembra mai riuscirci del tutto; c’è bisogno, sempre, di un altro luogo, di una via d’uscita.
L’articolo “Odissea pensioni 2100” di Pelto Pekka e Pin esplora tre scenari futuri per il sistema pensionistico italiano, basandosi su dati e tendenze attuali.
Punti chiave In Italia abbiamo questa situazione – Demografia in declino. – Aumento dell’aspettativa di vita. – Crollo del rapporto tra attivi e pensionati. – Necessità di nuove soluzioni per il welfare.
Domanda: che senso hanno le farneticazioni dei nostri governanti?
da Facebook una libera interpretazione dell’episodio in cui una anziana signora cercava di interloquire con un milite a proposito di Costituzione e di Presidente della Repubblica che lui dichiarava di non conosceva
Bruno il bibliotecario
Possa la sua benedizione accompagnarci nei momenti più difficili del nostro lavoro…
Su suggerimento di Stefania Andreini da Facebook
Un pensiero agli amici bibliotecari, una professione veramente usurante, quando è fatta bene
Da molti anni anni seguo un corso di scrittura con lo scrittore e giornalista Enzo Fileno Carabba il quale tende a darci, come compito a casa, temi di solito assurdi. Quello di questa settimana è SOPRANNOMI E SOTTONOMI. Stamani mi son svegliata con il testo in testa (buono questo calembour) e mi è venuto di getto. Mi sono divertita e ve lo propongo
Sandra Vegni (da facebook)
Il primo giorno di scuola la maestra Micheli, usa a chiamar per nome le sue bambine, rimase sconcertata a trovarsi davanti tre piccole di nome Sandra: una robusta e cicciottella, una minuta e timida, l’ultima una biondina dagli occhi corrucciati. La Micheli si stropicciò le mani, aggrottò le labbra e infine un sorriso le stemperò la fronte corrucciata. Aveva trovato la soluzione: Sandrona, Sandra e Sandrina. Batté le mani e le tre bambine tornarono a sedersi, compunte. Non so come la prese Sandrona, io mi strinsi nelle spalle, il mio ‘sottonome’ Sandrina non era poi male. Non sono cresciuta molto e – temo che in quegli anni a cavallo dell’anno 50 il mio nome andasse di moda – mi sono sempre trovata, in mezzo agli amici o al Liceo, con altre omonime. Sandrina ero e Sandrina son rimasta anche ora che ho passato il peso limite per essere definita ‘ina’. E non ho mai pensato che il mio fosse un ‘sottonome’ e neanche che quello della Sandrona fosse un ‘soprannome’, lo definirei piuttosto un ‘sopra-nome’. Anche a lei è rimasto appiccicato, purtroppo, visto che ci siamo mosse insieme per decenni. «Parlo con la Signora Thatcher?» disse al telefono il Deviatore Capo Morelli in risposta al mio «Pronto!» e così, in una mattina dove le nuvole si rincorrevano nel cielo, incuranti dei treni da formare e dei manovratori incappucciati nelle pesanti cerate, scoprii come venivo chiamata da tutti i 180 colleghi della Stazione di Rifredi nella quale mi agitavo, unica rappresentante del genere femminile, da quando avevo deciso che agitarsi fosse meglio che nascondersi. I colleghi di stanza mi osservavano in silenzio, di sottecchi, in attesa della reazione. Loro lo conoscevano, i vigliacchi, il mio soprannome! Scoppiai a ridere e loro con me. Correvano gli anni 80 e Margaret Thatcher imperversava nel Regno Unito. Non che la sua politica mi piacesse ma il soprannome era lusinghiero e, ad essere sincera, mi si adattava – almeno per quanto conducevo, con piglio deciso e risoluto, la postazione dei turni di servizio – e lo accettai di buon grado. Ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, i ferrovieri in pensione che mi incontrano mi salutano dicendo: «Oh, ecco la Thatcher! Ma sei rimasta proprio uguale…» Non è vero e lo sappiamo, però fa piacere sentirselo dire. Non preparo più da decenni i turni di servizio e neanche litigo più con i contribuenti che cercavano di imbrogliarmi all’Agenzia delle Entrate. Loro non lo sapevano ma quando ero davvero arrabbiata lasciavo uscire la Thatcher assopita che mi alberga dentro. L’ho fatta uscire spesso anche quando facevo gli Audit per il Sistema Gestione Qualità. Non c’era bisogno di tante parole, bastava lo sguardo. Ora la Lady di ferro esce di rado e solo quando il cielo minaccia tempesta; però, poverina, mica posso tenerla sempre al chiuso. È un soprannome o un ‘intra-nome’? Certo che passare la vita in alternanza tra ‘Sandrina’ e ‘Thatcher’ pone delle domande esistenziali. Potrei scrivere ‘ Doctor Jekyll e Mr Hyde. Peccato l’abbia già fatto Stevenson.