Elites e società – il paradosso di Condorcet

«La società che non viene illuminata dai pensatori, finisce ingannata dai ciarlatani. Noi non potremo combatterne qui che una specie: i ciarlatani politici.
In questo campo non tutti sono Cesare o Cromwell, ma bastano anche un mediocre talento e un minimo impegno per fare disastri. Tutti percorrono la stessa strada: blandire il popolo, per tiranneggiarlo. Tutti diffamano le virtù che non possono abolire. Tutti odiano i talenti che non si avviliscono a servirli. Tutti temono che si faccia luce, perché non possono vincere che combattendo nelle tenebre.
Mostrare al popolo le trappole in cui questa gente vuole attirarlo, è dunque uno dei primi doveri di coloro che abbiano a cuore la causa della verità e della nazione.»
Marie – Jean – Antoine – Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet
( Giornale di istruzione sociale , 1793)

Citazione ripresa da: La democrazia non esiste : critica matematica della ragione politica / Piergiorgio Odifreddi. Rizzoli, 2018.

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Il paradosso di Condorcet

Il marchese di Condorcet e il ragionevole ottimismo del pessimismo costruttivo

Condorcet dimostra che la regola della maggioranza, può rivelarsi del tutto inadeguato al raggiungimento di un verdetto univoco e soddisfacente
di Vittorio Pelligra
Il Sole 24 ore 28 gennaio 2024

Isaiah Berlin, il teorico delle due libertà, quella “negativa” che ci protegge dalle indebite interferenze esterne e quella “positiva” che ci rende autonomi legislatori di noi stessi, era convinto che la più strenua difesa della libertà rappresentasse la necessaria conseguenza della fallibilità umana ed in particolare di quella forma di indeterminatezza che deriva dall’incommensurabilità dei valori. Possono esistere, cioè, valori come la giustizia, l’eguaglianza, la democrazia e molti altri, ognuno dei quali è certamente giusto di per sé, ma che possono, non di meno, trovarsi in conflitto l’uno con l’altro, con altri valori, altrettanto giusti in sé. E tale conflitto non è una questione passeggera, temporanea o provvisoria, ma è strutturale e irriducibile. Ha a che fare con la natura stessa di ciò che definiamo “valore” e con ciò che chiamiamo “vita in comune”.

Ciò che Berlin definisce “pluralismo oggettivo dei valori” è una posizione che mette in discussione uno degli ideali fondanti del progetto illuministico che ha egemonizzato la cultura europea fino almeno a metà del ‘900 e cioè la convinzione che attraverso la ragione sia possibile scoprire l’ordine naturale delle cose che regge sia il mondo fisico che quello sociale e che sia possibile utilizzare tale conoscenza delle cose e degli uomini per progettare istituzioni armoniose capaci di conciliare verità, virtù e felicità. Questa triade verso la quale la “specie umana (…) avanza con passo fermo e sicuro” rappresenta il culmine del progresso umano nella celebre definizione del grande enciclopedista, filosofo e matematico Nicolas de Condorcet. Nella sua analisi che non a caso Berlin definisce contro-illuministica, invece, sviluppa una posizione molto differente partendo dalla constatazione che “esiste una pluralità di ideali, come esiste una pluralità di culture e di temperamenti”. E tale pluralità non deve condurci necessariamente al relativismo, puntualizza il filosofo, ma ad accettare l’esistenza di “una pluralità di valori che gli uomini possono e debbono perseguire, e che questi valori sono diversi (…) Se io sono un essere umano – continua Berlin – provvisto di una sufficiente immaginazione (certo, di immaginazione ho bisogno), posso entrare in un sistema di valori che non è il mio, ma che è nondimeno qualcosa che posso concepire che altri uomini perseguano rimanendo umani, rimanendo creature con le quali posso comunicare, con le quali condivido alcuni valori – giacché tutti gli esseri umani debbono condividere alcuni valori, oppure cessano di essere umani; d’altro canto debbono anche avere alcuni valori diversi, oppure cessano di differire, come in effetti differiscono (…) Se il pluralismo è una concezione valida, e il rispetto tra sistemi di valori non necessariamente ostili l’uno all’altro è possibile, allora ne conseguono la tolleranza e un orientamento liberale, come non avviene nel caso del monismo (una sola serie di valori è vera, tutte le altre sono false), e neppure nel caso del relativismo (i miei valori sono miei, i tuoi sono tuoi, e se ci scontriamo, ahimè, nessuno di noi può pretendere di aver ragione)”.

Abbiamo da una parte l’illuminismo dei philosophe come Condorcet che con il loro monismo – “l’antica credenza che esista un’unica armoniosa costellazione di verità in cui ogni cosa, se è autentica, deve finire con l’inserirsi” – scrive Berlin, una credenza in base alla quale si cerca di ricondurre all’unità, ragione e morale attraverso istituzioni progettate seguendo i dettami della razionalità. Dall’altra parte troviamo Isaiah Berlin che smaschera i pericoli insiti in questa posizione – il totalitarismo e l’intolleranza – e suggerisce che dall’ esistenza di “sistemi di valori non necessariamente ostili l’uno all’altro” debbano derivare, invece, “tolleranza e un orientamento liberale”. Allo stesso tempo, come vedremo, con sottile ironia, la storia ci mostra come proprio nel tentativo di dimostrare la superiorità della ragione, Condorcet stesso inizia a porre le basi di una disciplina i cui risultati mineranno alle radici il sogno illuminista rinforzando al contempo la conclusione pluralista indicata da Berlin. Una disciplina, la teoria della scelta sociale, che stando a metà tra economia, filosofia politica e matematica, si occupa di come possano essere combinate le preferenze, i gusti, i desiderata e i valori di singoli individui affinché congiuntamente questi possano dar vita ad una scelta collettiva. Una scelta “della gente, dalla gente, per la gente” come avrebbe detto Abraham Lincoln.

Com’è possibile arrivare a dei giudizi condivisi su importanti questioni sociali – “come dobbiamo promuovere il benessere”, cos’è l’“interesse pubblico”, “come combattere la povertà” – data la naturale diversità dei valori che queste questioni implicano? Condorcet va alla ricerca di procedure formali che consentano di aggregare le opinioni individuali e di trasformarle, sintetizzandole, nella volontà generale. Non è solo in questo tentativo. Jean-Charles de Borda, un altro matematico ed illuminista si occupa nello stesso periodo degli stessi temi. La domanda è la stessa ma le conclusioni divergono. Il punto di partenza è simile. Entrambi, infatti, si concentrano sulla teoria delle votazioni. Se dobbiamo aggregare le preferenze dei cittadini perché non farli esprimere direttamente attraverso una votazione? Tutti d’accordo. Ma con quale sistema? Non tutti i sistemi di voto, infatti, hanno le stesse caratteristiche e alcuni hanno certi pregi e certi difetti e altri, al contrario, altri pregi e diversi difetti. Il metodo Condorcet da una parte e quello di Borda dall’altro. Si confrontano, si criticano, ma contemporaneamente si incoraggiano nello sforzo comune. A un certo punto, però, qualcosa va storto, decisamente storto. Emerge un risultato che sembra compromettere definitivamente i loro sforzi illuministici. Condorcet dimostra un risultato paradossale – il “paradosso di Condorcet”, appunto – il fatto, cioè, che anche un metodo di votazione semplice come la regola della maggioranza, può rivelarsi del tutto inadeguato al raggiungimento di un verdetto univoco e soddisfacente, con la proposta A che vince sulla B a maggioranza, con la proposta B che batte la proposta C a maggioranza e con la proposta A che, a maggior ragione, si impone sulla proposta C. Sembrerebbe ragionevole e sarebbe certamente auspicabile. Ma Condorcet dimostra che le cose possono andare molto diversamente. Procediamo per ordine: immaginiamo che ci siano tre cittadini e tre proposte alternative su cui votare; chiamiamole A, B e C. Il cittadino 1 classifica le alternative secondo le sue preferenze ponendo per prima A, per seconda B e C come terza (ABC). Le preferenze del cittadino 2 sono invece BCA e quelle del cittadino 3, infine, CAB. Adesso la questione diventa come sia possibile passare da questi diversi ordinamenti di preferenze individuali dei singoli cittadini ad un ordinamento di preferenze sociale che sia in grado di rappresentare la volontà collettiva e di guidare quindi una decisione pubblica. La risposta più semplice ed immediata è quella di una votazione. Facciamo votare i cittadini applicando, per esempio, la regola della maggioranza. Potremo dire che A è socialmente preferito a B se il numero di elettori che preferiscono A a B è maggiore del numero di elettori che preferiscono B ad A. Immaginiamo ora di mettere in votazione le varie alternativa a coppie, iniziando da A contro B. In questo caso, date le preferenze degli elettori, è facile osservare che risulterà vincente l’opzione A, perché sia l’elettore 1 che il 3 preferiscono A a B (negli ordinamenti di preferenze A sta a sinistra di B) e solo l’elettore 2 preferisce B ad A. Possiamo verificare nello stesso modo che anche B è preferito a C secondo la regola della maggioranza perché sia l’elettore 1 che l’elettore 2 voterebbero per B contro C. A questo punto sarebbe ragionevole attendersi, visto che A è preferito a B e che B è preferito a C, per una forma di transitività elementare, anche che l’opzione A venga preferita a C. Ma se andiamo a contare i voti vedremo che le cose non stanno così: infatti C è meglio di A sia per l’elettore 2 che per il 3. Quindi in una votazione a maggioranza A vince su B, B vince su C e C vince su A in un ciclo intransitivo dal quale è impossibile uscire. La ragionevolezza di una regola semplice come quella di una votazione a maggioranza non è in grado di fornirci una risposta univoca rispetto a cosa, a partire dalle loro preferenze individuali, un gruppo o una collettività finirebbe per accettare. Questo di Condorcet è con tutta probabilità il primo risultato di “impossibilità”: la dimostrazione rigorosa, cioè, del fatto che alcune caratteristiche semplici e desiderabili di un processo decisionale o di una regola sociale non sono in grado di produrre risultati compatibili con altre caratteristiche semplici e desiderabili dello stesso processo. In questo caso la regola a maggioranza risulta incompatibile con una decisione univoca.

È una bella ironia che sia stato proprio uno dei promotori principali del monismo illuminista a passare alla storia come colui che per primo ha posto le basi teoriche della dissoluzione di tale ideale. Ci aveva visto giusto Berlin allora? Pare di si, perché sembra proprio che il principio giusto di una scelta democratica non sia compatibile con il principio altrettanto giusto di una decisione certa e univoca. I valori sono plurali e possono essere perfino incommensurabili tra loro.

Condorcet è stato solo il primo a dare ragione, anche se involontariamente a Berlin, a portare prove a sostegno del suo pluralismo oggettivo dei valori. Molti anni dopo ci si uniranno idealmente all’impresa molti altri, come Kenneth Arrow e Amartya Sen, per esempio, entrambi economisti, entrambi premi Nobel, che con i loro teoremi di impossibilità, da una parte contribuiranno attraverso il “pessimismo costruttivo” che emergerà dai loro lavori a ridimensionare le aspirazioni illuministiche del monismo e, dall’altra apriranno un importante dibattito sui fondamenti e la razionalità delle nostre scelte collettive. Forse Hobbes, Hume e Kant, sembrano avere molto più da dire oggi di Condorcet, Arrow e Sen, solo perché parlano in prosa; adottano cioè un linguaggio solo apparentemente più comprensibile dei formalismi matematici di Condorcet, Arrow e Sen. Eppure le risposte che oggi possono darci i teorici della scelta sociale davanti a problemi complessi e pressanti della nostra attualità – guerre, conflitti, cambiamenti climatici – sono in realtà almeno altrettanto profonde e necessarie di quelle dei grandi classici del pensiero politico. Andremo avanti, seguendo l’intuizione di Berlin, con l’analisi dei risultati di impossibilità di Arrow e di Sen, che ci mostreranno, il primo, come non sempre sia possibile trovare una regola ragionevole per decidere tra diverse alternative a meno di non invocare l’azione di un dittatore benevolente, mentre il secondo dimostra come libertà ed efficienza spesso sono in conflitto radicale tra loro e se desideriamo una delle due saremo costretti a rinunciare all’altra. La dimostrazione dell’impossibilità di raggiungere tali risultati non va però interpretata in maniera negativa, così come alcuni con ingenua superficialità, tendono a fare. Ciò che possiamo imparare da essi è quel “pessimismo costruttivo” che ci mostra i limiti del nostro pensiero, delle nostre regole e delle nostre istituzioni solo per indicarci la via per superarli. Capire perché non possiamo avere ciò che desideriamo e riteniamo giusto è, infatti, il primo passo necessario per scoprire quali altri mezzi abbiamo a disposizione per ottenere proprio ciò che desideriamo e riteniamo giusto. Davanti ad una strada sbarrata si può rinunciare e tornare indietro oppure perseverare e cercare vie alternative. Il pessimismo costruttivo di Arrow, Sen e molti altri teorici della scelta sociale ci incoraggia ad andare in questa direzione, a trovare queste alternative possibili e a non rinunciare all’ideale di una vita che sia contemporaneamente libera e giusta.

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