In Fabbrica

Da: Anni cruciali. 1957-1968 / Gino Benvenuti. Il Punto rosso, 2021. http://www.puntorosso.it/edizioni.html

Mi presentai da solo il Lunedì come fissato, e parlai, dopo aver mostrato la lettera ricevuta, con il capo-impiegato preceduto da un prolungato latrare di un cagnaccio legato a catena davanti all’ingresso. Si informò sul tipo di scuola che avevo fatto (unica volta in cui mi fu utile), mi “catechizzò” sui miei doveri e così, dopo aver esaurito il termine stabilito per il preavviso di licenziamento, venni assunto in questa ditta che produceva attrezzatura meccanica; come apprendista metalmeccanico cominciai un altro percorso senza perdere neanche un giorno. Rinnovai una tuta acquistata sui banchi del mercato in S. Lorenzo di cui andavo fiero al punto da indossarla appena comprata nel tornare a casa.

Quando incontrai una condomina davanti al portone dello stabile stupita mi chiese:
Dove vai vestito da operaio?– .
-Domani comincerò il lavoro in fabbrica– risposi orgoglioso.
-Almeno aspetta di entraci dentro– ridacchiò la signora.
-Sono ragazzi– commentò la mamma mettendosi a parlare con lei –speriamo che gli duri questa voglia– aggiunse trattenendosi a chiacchierare. Io proseguii e mentre salivo la prima rampa di scale la signora mi salutò:
Auguri Gino-.
Grazie signora– risposi nel chiederle di salutare il figlio che non vedevo da un pezzo perché anche lui aveva cominciato a lavorare con suo fratello. Per la mia mobilità adoperai una vecchia bicicletta Bianchi ed un lucchetto con catenaccio che avevo comprato da alcuni giorni ed arrivai, con un quarto d’ora di anticipo, alla ditta ubicata in Via G. D’Annunzio 27, vicino al cinema Fiorella, in un piccolo complesso che raggruppava altri laboratori artigianali ed industriali. Si presentava come una fabbrica di piccole dimensioni dotata anche di un reparto per temperare i prodotti della propria produzione ed era gestita con una divisione rigida nei compiti e nelle qualifiche, con una produzione e degli orari da rispettare, pena il richiamo da parte del personale preposto ai controlli, nonché la consegna di vari strumenti di lavoro di cui ognuno era responsabile; inoltre se la marcatura della cartolina mostrava un colore diverso eri sottoposto al controllo personale. Apparve chiaro la diversità dall’attività di un piccolo negozio e questo fu un fatto di non poco conto. Presi presto confidenza con l’ambiente ed il mio primo lavoro consisté nel produrre alla dentatrice i rulli 38 cc. previsti per il “Cucciolo”, un tipo di veicolo con motore che, tramite una leva, faceva aderire questo ingranaggio dentato al tubolare posteriore, permettendo il passaggio da bicicletta a motorino. Le quattro dentatrici lavoravano in simultaneità e sprigionavano un frastuono infernale. In seguito, dopo che avevo fatto la trafila alla sega elettrica ed al bilanciere, con tanto di comparatore per raddrizzare le barre temperate, cominciai a lavorare alla rettifica universale per portare a misura l’interno di questi rulli già temperati. Con il tampone verificavo l’esatta misura e se il rullo era “lasco” rimediavo, munito di un mazzuolo di legno e lontano da qualche sguardo indiscreto, con un piccolo colpetto ovalizzandolo per procedere ad una successiva rettifica.

Qui la paga era soddisfacente, rispetto al negozio, e, con qualche ora di straordinario, mi permetteva di portare a casa una cifra discreta. Ovviamente abbandonai il corso di tecnico televisivo e quando incontrai l’amico con cui lo avevo seguito gli dissi del mio nuovo lavoro ed anche quanto prendevo.
-Hai fatto bene… anch’io ho trovato un altro lavoro in un’officina meccanica e guadagno molto di più- .
Ero soddisfatto perché potevo comprarmi qualcosa che desideravo anche se dovevo sempre prima versare la busta e dopo ricevere i soldi per i “miei vizietti”; analogamente faceva così anche mia sorella. In casa mia funzionava una redistribuzione “a ciascuno secondo i propri guadagni” perché dovevamo tenere conto rigidamente del bilancio familiare; il superfluo non esisteva. Prima di questo lavoro, niente paghetta pattuita ma uno stillicidio di richieste non tutte esaudite mentre a questo punto potei disporre di qualche soldo. Infatti la prima cosa che pensai fu “ora mi posso permettere di andare allo stadio con un biglietto” e da allora vi andai solo come spettatore pagante archiviando per sempre quell’espediente che, seppur saltuario, mi aveva permesso di entrare la Domenica mattina presto allo stadio insieme ad una persona, che lavorava nel bar sotto la tribuna. Lì lo affiancavo pulendo le tazzine del caffè e riempivo le bottigliette di ponce fino a che non fosse iniziata la partita per ritornare alle mie mansioni durante l’intervallo, salvo poi tornare in tribuna in cima alle gradinate fino alla fine della partita. Dallo stadio, poi a volte rientravo a piedi a casa oppure venivo accompagnato in motorino.

Il bar non cambiò gestione e qualche volta, a fine partita, a seguito dell’apertura dei cancelli interni, quando la gente era defluita, tornai a salutare i proprietari. L’entrata in una fabbrica coincise con regole precise ed obblighi inderogabili, tempi e ritmi diversi da quelli conosciuti nel periodo estivo ed anche nella breve parentesi come apprendista elettricista e le mie abitudini cambiarono in modo radicale. La fatica era tanta ed a volte la sera ero stanco, però questo non mi impediva, nonostante l’esiguo intervallo per pranzare, di partecipare a partite di calcio improvvisate di quindici/venti minuti sfidando la fabbrica attigua dopo aver mangiato in fretta per giocare di più. Quando non era possibile, giocare a calcio nell’intervallo, restavo nel locale adibito a spogliatoio che con un tavolone e delle sedie fungeva anche da “luogo mensa”.

Finito di mangiare i più anziani parlavano spesso, giornale alla mano, di politica, però io non mettevo bocca anche perché non ne capivo ed ascoltavo interessato; dicevo la mia solo quando l’argomento era lo sport e soprattutto di calcio. In quel complesso artigianale dove lavoravo, molti erano pendolari, fenomeno molto diffuso in quel periodo, e spesso li incrociavo per la strada. Venivano in treno dalla provincia di Firenze e scendevano alla stazione Campo di Marte, salvo proseguire a piedi per poco più di un chilometro. Una mattina che arrivai più presto, in attesa di entrare al lavoro, sostai davanti al cancello del complesso artigianale e mi sentii chiamare: era un collega che mi invitava a prendere un caffè. -Ti faccio compagnia, ma non lo bevo il caffè– risposi raggiungendolo. Una volta fuori dal bar mi indicò l’inizio della strada dicendomi “io abito laggiù”. Nel frattempo stavano arrivando un nutrito gruppo di pendolari, alcuni dei quali lavoravano con me, ed egli esclamò, con tono sarcastico, “ecco i contadini!” che nel gergo corrente era considerato come offesa e denigrazione. Questo tipo di provenienza era il segnale di un progressivo distacco, per quelli della mia generazione, dalle campagne ed infatti, quando parlavo con qualcuno di essi, emergeva che quasi tutti i loro genitori avessero avuto esperienze di lavoro legate al mondo rurale.

In fabbrica ero il più giovane e fui oggetto anche di episodi di nonnismo e soprannomi dispregiativi; una maniera per farti capire chi comanda. In alcuni frangenti si rasentava la crudeltà nella derisione e vissi anche un episodio umiliante, ma la seconda volta quando vollero replicare lo stesso copione, ridendo dissi loro di procedere; si stopparono subito e da allora mi lasciarono in pace, avendo saggiato la mia disponibilità allo scherzo pesante. Non ero comunque il solo ad essere bersagliato come una recluta. Bastava un appiglio qualsiasi che duravano a giorni a bombardarti come quando un collega, che abitava nel Casentino, ammise che nel circolo del suo paese alcuni avventori, tra cui lui, si portavano le sedie da casa per stare alla televisione. Non ebbe finito di dirlo che tutti cominciammo a sghignazzare e nello spogliatoio, un ignoto, il giorno dopo, lasciò un disegnino, che restò appeso una settimana, di una persona in piedi, con il suo nome, che aveva una sedia in mano davanti ad un televisore e la mattina, prima di entrare in officina, gli domandavano se avesse portato, la sera precedente, la sedia al circolo.

Ricordo che in occasione della chiusura dei bordelli, nel settembre del 1958, i miei colleghi un po’ più adulti ne approfittarono per fare questa esperienza. Chi non aveva l’età si fece prestare un documento da un altro oppure ebbe la compiacenza della maîtresse e nei giorni seguenti, nello spogliatoio, fioccarono i racconti su come era stata vissuta quella fatidica data. Ci fu chi raccontò di aver portato lo spumante in casino, chi aveva lasciato anche la mancia e chi riportò anche i commenti stizziti della tenutaria rivolti a lui mentre ne stava uscendo:
-Ragazzi, da domani andrete per la strada. Occhio però alle malattie-. Inevitabile che alla fine dei discorsi, fossi sfottuto perché non avevo vissuto questa esperienza. Casualità volle che una Domenica mattina, tornando a casa dopo aver visto un incontro di calcio tra squadre juniores al campo “Padovani”, ubicato ad una cinquantina di metri dallo stadio comunale, mentre camminavo all’altezza del viale dei Mille, poco oltre l’incrocio con via Marconi, urtai involontariamente una persona che usciva dal bar prospiciente. Mi scusai immediatamente e quando questo uomo si voltò mi riconobbe.
-Sei il nipote di Adolfo?– .
-Sì, diciamo così- .

Era un collega del “nonno” e mi aveva conosciuto quando ero andato anni addietro, a visitare la fabbrica Vallecchi. Delle volte, quando andavo a riscontrare il nonno, nel vedermi, sapendo chi ero, si adoperava subito per informarlo, tramite il portiere, della mia presenza.
-Digli ad Adolfo che c’è suo nipote– e dopo pochi momenti il nonno arrivava insieme ad altri colleghi. Qualche volta invece lo avevo incrociato all’uscita della fabbrica; il tempo di scambiare qualche parola ed ognuno prendeva dopo la strada di casa. Subito mi chiese se studiavo o lavoravo ed io lo ragguagliai sulla mia situazione terminando il discorso “faccio questo lavoro ma mi sarebbe piaciuto fare il tipografo o il compositore come era il nonno”. L’uomo, che presentava una vistosa stortura del collo a causa, così mi accennò il nonno, della sua passione nel suonare il violino, mi domandò se abitavo sempre nello stesso posto e mi salutò promettendomi che si sarebbe interessato per me dato “che ho ancora conoscenze nel mondo dell’editoria”. Lo ringraziai ma niente faceva presagire che dopo un paio di mesi si presentasse a casa mia una Domenica mattina. Ero andato a giocare al biliardino al bar e quando tornai, rimasi sorpreso nel trovarlo a parlare con i miei familiari in salotto, dove mia sorella lo aveva fatto accomodare. Alla mia vista egli entrò subito in argomento, facendomi capire che si sarebbe potuta aprire una possibilità di lavoro per essere assunto in un’azienda grafica. –Ho lanciato una voce in giro e c’è questa possibilità. Pensaci- . –La scelta deve essere tua– incalzò mia madre. –Devo dirlo adesso?– risposi un po’ confuso. L’opportunità agognata era a portata di mano e senza mettere tempo in mezzo dissi di sì. –Quando dovrei cominciare?– . –Vai a questo indirizzo e ricordati di dire che ti mando io– tenne a precisare l’uomo che venne ringraziato e prima di andarsene rifiutò di restare a pranzo. Andai più presto possibile in quella fabbrica però mi fecero presente che avevano già provveduto ad un’assunzione, ma quello che sfumò in quel frangente, si presentò pochi mesi dopo quando venni assunto in un’azienda lito-tipografica a seguito dell’interessamento di mia madre che, lavando e stirando per fuori, non perdeva occasione di fare presente questo problema al momento della consegna del lavoro svolto.

Gino Benvenuti, 2021

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