Smettiamo di chiamarla destra. È molto peggio

da La Repubblica del 24 settembre riportiamo questa riflessione di Michele Serra

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Michele Serra

Forse il problema è che non dovremmo più chiamarla “destra”. È un concetto che evoca ordine e conservazione, borghesia e banche, gerarchia e capitalismo. Nonché un congenito, secolare disprezzo per la demagogia comiziante e per l’idea stessa che “il popolo” possa determinare il corso della storia. La destra era (è sempre stata) quella parte della politica convinta che spettasse alle élite governare e al popolo obbedire. Era Giuseppe Prezzolini quando nel “Manifesto dei conservatori” scriveva, con spregio, che «la destra è la cultura dei libri, la sinistra è la radiolina».

Sembrano passati i secoli, da quella destra. Invece è successo tutto in pochi anni. E tutto è radicalmente cambiato. Qui siamo a Trump che benedice l’assalto al Campidoglio per mano di mattoidi nutriti a complottismo, al mito di Meloni “underdog” uscita dai bassifondi a dispetto dell’establishment e dei “poteri forti”, alla destra cospirativa e paranoide di Steve Bannon, al Salvini che brandisce il rosario davanti alla folla. Siamo ai novax, ai notax, al negazionismo come impostazione culturale di base (tutto è falso, tutto è trama dei potenti contro “il popolo”), alle armi da fuoco brandite da amministratori leghisti (già, la Lega: non è tutto cominciato proprio lì?) che postano schioppi e pistole come simbolo di autodeterminazione, a un popolino frustrato che non riconosce Stato né leggi, e in ogni gerarchia consolidata vede solo arbitrio, frode e sopraffazione. Questa è la vetrina della destra politica odierna a livello mondiale. E non è una vetrina “conservatrice”, tanto meno liberale. È un fenomeno nuovo e ancora senza nome (“populismo” è un termine troppo vago, esiste anche un populismo “di sinistra”. Il fascismo è sicuramente popu-lista, ma non tutti i populismi sono fascisti).

Che poi nel retrobottega lavorino, felici di passare quasi inosservati, vecchi notabili e nuovi contabili del conservatorismo classico, i gattopardi del «tutto cambia perché nulla cambi », è un altro discorso. I Giorgetti, gli Zaia, i Tajani, i Lupi, le vecchie volpi post-democristiane che sicuramente disprezzano il populismo fracassone e contano di poterlo cavalcare fino allo stremo. E ci tocca dire: speriamo che non abbiano sbagliato i loro conti, che il loro cinismo prevalga nel nuovo impasto di potere.

Un pezzo di questo nuovo impasto è vecchio, certo, ed è il fascismo. Quel nazionalismo da strapazzo, quel rancore incurabile che si tramutò in olio di ricino per i professori e che portò un fallito sociale (Mussolini, lui sì un vero “underdog”) a sconvolgere l’Europa portandola alla catastrofe e alla mattanza. Ma un pezzo è invece nuovo, mai visto, impensabile senza i social che organizzano l’odio in forme prima inimmaginabili, che vomitano su chiunque sia sospettabile di avercela fatta, e soprattutto: che della realtà hanno deciso di fare a meno perché è d’impiccio.

Trump, in questo senso, di questa nuova “cosa” è il leader indiscusso. La destra ha sempre amato definirsi “realista”. Oggi abbiamo di fronte, nell’intero Occidente, una destra antirealista. Con la quale sarà difficilissimo fare i conti perché abitiamo nello stesso Paese, non nella stessa realtà.

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