SPADE E CRISANTEMI. Antropologi in tempo di guerra

Pubblichiamo queste riflessioni di Valerio Fusi, già pubblicate negli anni ‘90 dalla rivista del dipartimento di antropologia dell’università di Milano (Achab) e che conservano (purtroppo) tutta la loro attualità

Valerio Fusi

Il testo che segue è stato scritto come contributo informale ad una discussione su guerra e antropologia promossa da Pietro Clemente, in occasione di alcuni seminari organizzati tra Prato e Roma. L’ho lasciato così come è nato, nella forma di un dialogo a distanza con Pietro, e con il bel testo che lui aveva preparato per il dibattito.

Non si tratta di un contributo accademico, che non ho titoli né dottrina sufficiente per produrre. Piuttosto una riflessione a mente fredda su alcuni temi di interesse antropologico che mi stanno a cuore; un poco ridondante, forse, a tratti declamatoria, ma non così tanto da invogliarmi a correggerla ora. Una perorazione sentimentale ed emotiva contro l’ingerenza dell’emotività e del sentimento nell’approccio professionale e politico degli antropologi ai temi della guerra: uno di quegli ossimori che dovrebbero piacere a Pietro.

Vorrei che il lettore non si lasciasse trarre in inganno dal tenore retorico, che qualcuno ha ritenuto – a torto, credo – troppo giocato sul registro dell’invettiva, del cinismo e del paradosso, e che è soltanto l’involucro di una argomentazione che spero di aver reso invece crudamente realistica, così come appare a me.

Il titolo, naturalmente, allude al libro di Ruth Benedict sulla cultura giapponese, che le fu commissionato dal governo americano durante la seconda guerra mondiale per scopi che non avevano molto a che fare con la promozione della fratellanza tra i popoli. Mi è sembrato un esempio interessante del modo di intendere il ruolo degli antropologi in tempo di guerra: un esempio che dovrebbe renderci meno ottimisti sull’uso, sugli effetti e sulla reputazione del nostro sapere in questo momento della storia.

Caro Pietro,

non so se quella che offro qui sia – come chiedi – una testimonianza esperta. Certo ho molto poco da testimoniare, e la mia esperienza è quella che è. Forse sono finito per errore sulla tua lista di indirizzi, ma ormai ci sono, e tanto vale dire come la penso. Potrebbe anche servire a qualcosa, dopotutto.

Questa volta, però, per tanto che mi piaccia leggere quello che scrivi – l’intensità, la densità, il pathos, ma anche lo sguardo lucido e sofisticato – non riesco a trovarmi d’accordo.

Non mi ritrovo in primis nel tuo sgomento epistemico davanti alla incomprensibilità del mondo contemporaneo.

A me pare invece che il mondo sia così spaventosamente prevedibile. Lo sentiamo incomprensibile ora solo perchè abbiamo passato la vita a pensare che non lo fosse, e ci siamo gingillati con l’idea titanica che tutto potesse essere spiegato, che per quanto difficile, complessa, opaca fosse la realtà, c’era un pensiero – per quanto difficile e complesso – che ce l’avrebbe mostrata per quello che è. L’ontologia arrogante di chi immagina un mondo che è lì per essere compreso, la pretesa che lo scopo dell’uomo su questa terra, il valore della sua vita stia nel capire, nell’estrarre una regola, una cifra, un algoritmo, una ragione, un senso, una lex abscondita che stavano lì prima dell’uomo – o che erano nati con lui -, e che il possesso di questa ragione, di questo senso, fosse un bene in sé, che avrebbe reso il mondo migliore, e dato un senso a sua volta al nostro esserci dentro. Una pretesa del genere, per quanto generosa (ma anche non priva di qualche torbido risvolto) era destinata alla fine desolante che oggi lamentiamo. Mi sembra semplicistico, e inutile, chiedersi quale formula abbiamo sbagliato, quale errore abbiamo commesso nel decifrare la cabala della cosa in sé, illudendoci ancora che basti raddrizzare la rotta, mettere in sesto la bussola, e ritornare al punto in cui abbiamo perso di vista la verità perché sia possibile afferrarla di nuovo. Condivido il tuo disincanto, ma lo trovo ancora troppo ottimista, troppo poco disincantato, come quello di un innamorato tradito che maledice il suo amore, ma non riesce ad impedirsi di amare.

Forse il mondo che abbiamo conosciuto era troppo semplice, troppo seducente il suo invito ad essere decifrato, troppo facili, e ingannevoli, i successi delle nostre traduzioni. Le cose che ci sgomentano oggi, e che ci fanno dubitare della ragionevolezza, della compresibilità del mondo, c’erano già allora, c’erano state. Sapevamo che c’erano: la guerra, i campi di sterminio, la morte, le atrocità. Alcuni di noi c’erano passati attraverso. Ma tutto era previsto nella Grande Spiegazione. I buoni avevano vinto la guerra, e questo aveva rimesso in sesto l’universo.

Il male c’era ancora, eccome. Con il nostro potente telescopio lo vedevamo in tutta la sua minaccia, laggiù, ai confini del nostro mondo. Alcuni si erano spinti fino a lì, al seguito di certi compaesani armati fino ai denti che aderivano ad ontologie meno sofisticate delle nostre, e ne avevano riportato referti terrificanti. Ma era come andare al cinema, in un certo senso. Sistemiamo le contraddizioni principali, e il resto si metterà a posto da solo, in qualche modo. Prima o poi saremmo arrivati anche laggiù, noi o qualcuno come noi, o qualcuno per noi.

Oggi però il male bussa direttamente alla nostra porta, anzi, come dice quella canzone, scuote i muri e fa tremare i vetri delle finestre. Forse è già riuscito ad entrare dalla finestra sul retro, e si è seduto sulla nostra poltrona preferita senza che ce ne accorgessimo. Ci rendiamo conto che niente è più come credevamo che fosse, che niente, forse, lo è mai stato veramente.

E’ successo ad altri, prima di noi, in momenti storici di altrettanta sgomentevole incertezza. Non c’è niente di nuovo in questi sentimenti di dubbio, di sconcerto, di impotenza, anche se è del tutto nuovo – del tutto – il contesto, e la misura, e la potenza del male.

Su questo nel 1941 ha scritto una poesia Wystan H. Auden alla quale non c’è niente da aggiungere:

L’età dell’ansia di Auden

Fino ad ieri non sapevamo d’altro, e credevamo
Di avere quanto ci occorreva – l’adrenalinico coraggio della tigre,
La discrezione del camaleonte, la modestia della daina,
O la devozione della felce alla necessità spaziale
Esercitare la propria virtù civica non era
Così impossibile dopo tutto; ridurre le nostre perdite
E seppellire i nostri morti era davvero facile…
Ma allora eravamo bambini: questo era un momento fa,
Prima che una novità offensiva fosse introdotta
Nelle nostre vite. Perché non siamo stati messi in guardia? Forse lo siamo stati
Forse quel misterioso ronzio dietro il cervello
Che sentivamo a volte – sedendo soli
Nella sala d’aspetto di una stazione di campagna, guardando in alto
la finestra della latrina – non era indigestione
ma questo Orrore che cominciava già a farsi strada?
Come e quando avvenne non lo sapremo mai:
Possiamo solo dire che è presente, e che nulla
Di quanto imparammo ora ci serve minimamente,
Perché nulla di simile era accaduto mai. E’ come se
Avessimo lasciato la casa cinque minuti appena per spedire una lettera
E nel frattempo la stanza di soggiorno avesse cambiato posto
Con quella dietro lo specchio del caminetto;
È come se, svegliandoci all’improvviso, ci trovassimo
Sdraiati sul pavimento, ad osservare la nostra ombra
Pigramente stirarsi alla finestra.
Intendo dire che il mondo dello spazio in cui gli eventi si ripetono c’è sempre
Ora soltanto non è più reale; quello reale non è in alcun luogo,
È dove il tempo permane immobile e niente può accadere;
Intendo dire che per quanto ci sia una persona di cui sappiamo tutto,
che ancora porta il nostro nome e ama se stessa come prima
quella persona è divenuta una finzione; la nostra vera esistenza
è decisa dal caso e non ha importanza l’amore.
Ecco perché disperiamo; ecco perché vorremmo dare il benvenuto
Al babau della nursery o allo spettro della cantina, perché anche
L’ululato violento dell’inverno e della guerra è divenuto
come un motivo da juke-box che non si osa fermare.
Temiamo il dolore, ma temiamo di più il silenzio;
Perché nessun incubo di oggetti ostili potrebbe essere terribile come questo vuoto.
Questa è l’Abominazione. Questa è l’ira di Dio.

Spade e crisantemi

La guerra, allora. E’ la guerra, con tutto il suo seguito di lutti, atrocità, distruzioni e sangue, che ci fa dubitare di tutto. Ci spaventa, ci atterrisce, certo, ci sconvolge, ma sconvolge soprattutto la consolatoria architettura razionale del futuro in cui avevamo ottimisticamente riposto la nostra fiducia, su cui contavamo di costruire le nostre vite, le nostre e quelle dei nostri figli e nipoti. Devasta l’idea che ci eravamo fatti del mondo e di noi stessi, e ci obbliga a rimettere tutto in discussione.

Dobbiamo capire, ripetiamo a noi stessi.

Ma capire che cosa? Capire per che cosa? Perché tutto torni come prima, e il male venga di nuovo respinto in quei territori lontani che esploravamo con il telescopio, in attesa di annetterli ai nostri possedimenti? E in base a quale ragionamento associamo il progresso del bene all’incremento delle nostre conoscenze? Cosa ci fa credere con tanto ottimismo che la sconfitta del male sia conseguenza necessaria della sconfitta dell’ignoranza, della superstizione, della confusione mentale, dell’entropia concettuale di cui ci sentiamo vittime? Vogliamo capire. E poiché la guerra è guerra con l’altro, è soprattutto l’altro che vogliamo capire.

Finalmente un lavoro adatto a me, pensa l’antropologo, che ha passato la vita a cercare di capire l’altro, che ha costruito su questo la propria professione, seppure con esiti ambigui.

Ma anche concedendo la praticabilità epistemologica di una conoscenza del genere, siamo davvero certi che conoscere l’altro sia di per sé uno strumento per appianare i conflitti? O non serve semmai al contrario, come sanno bene i servizi di intelligence di tutti i paesi, che da sempre – come gli antropologi, e qualche volta anche con l’aiuto degli antropologi – studiano e cercano di capire il nemico perché sia possibile colpirlo meglio? In fondo è per questo che si chiamano come si chiamano, no?: intelligence.

“… dovevamo bombardare il palazzo dell’imperatore? … Che cosa dovevamo dire nella nostra propaganda che servisse a salvare vite americane e indebolisse la determinazione dei Giapponesi di combattere fino all’ultimo uomo? Doveva prendersi in esame anche l’eventualità di un annientamento del popolo giapponese?” Queste le domande che il governo americano rivolse a Ruth Benedict nel 1944. Non saprei dire se la preferenza che fu poi accordata all’ultima opzione di quella lista sia stata propiziata anche dal lavoro della Benedict, ma trovo comunque la circostanza piuttosto inquietante.

Mi pare allora che non è tanto offrendo la sua presunta (e tutta da dimostrare) competenza nella comprensione dell’altro che l’antropologia potrebbe dare un contributo alla riduzione del conflitto (o almeno alla riduzione del nostro proprio sconcerto cognitivo), quanto piuttosto riproponendo la consapevolezza – che sta all’inizio ed alla fine di ogni antropologia rispettabile – della relatività delle culture e della impossibilità di ricondurne la varietà (e la comprensione) ad una struttura invariante di principi e di valori.

Paradossalmente, cioè, esibendo non i suoi successi come disciplina, ma il proprio intrinseco scacco epistemologico.

Giudizi di valore.

Accettare un punto di vista relativistico (eh, sì: questa è la parola, per quanto dubbia sia la sua reputazione nel senso comune come presso gli ambienti accademici, e susciti invariabilmente sdegno e ripulsa) significa per prima cosa diffidare dei giudizi di valore.

Qui la parola chiave è diffidare. Non è possibile (non ha senso) escludere i giudizi di valore dall’orizzonte conoscitivo di ciascuno. Il rifiuto stesso dei giudizi di valore nasce peraltro esso pure da un giudizio di valore. Ogni passo della nostra vita quotidiana e ogni parola del nostro sapere di antropologi gronda di giudizi di valore. La nostra vita è costruita sui valori, sono i valori l’impalcatura del nostro mondo, sulla quale appoggiamo le nostre convinzioni minute, la percezione del nostro essere al mondo, alla quale affidiamo il senso della nostra esistenza. Se si dà il caso, siamo anche disposti ad uccidere per i nostri valori. Qualche rara volta persino a morire. Non potremmo mai farne a meno.

Possiamo però tentare di amministrarli con una maggiore consapevolezza: diffidare – appunto – delle formulazioni troppo assertive, degli universalismi e dei fondamentalismi. Un requisito di buon senso, prima ancora che una premessa metodologica; ma anche qualcosa di più del frusto elogio liberale della tolleranza che tutti abbiamo visto naufragare così miseramente alla prova di questi anni di fuoco.

Questo è importante soprattutto per la guerra: la guerra è per l’appunto anche e principalmente un conflitto di valori. Sicuri come siamo dei nostri, ci sembra sempre talmente evidente che quelli dei nostri nemici siano sbagliati, nonostante che loro si ostinino a considerarli valori, nonostante che anche loro siano disposti (qualche rara volta, ma sempre più spesso di quanto non accada a noi) a morire (e uccidere) per loro. C’è sempre una lotta tra il bene e il male, e tra il giusto e l’ingiusto, ma il problema è che immancabilmente entrambi i contendenti ritengono di stare dalla parte del bene, e che essere collocati in tale posizione privilegiata renda sacro il loro compito: ne santifica il fine e rende lecite pratiche che in altri contesti sono considerate inaccettabili. In questo contesto, se è uno dei nostri ad uccidere, sarà esentato dall’esecrazione universale che si riserva a chi sopprime una vita umana. Se invece si fa uccidere, diventerà un eroe, o un martire, o tutte e due le cose insieme. Al contrario i nostri nemici, nelle stesse circostanze, saranno rispettivamente assassini e fanatici. Lo stesso vale, simmetricamente, anche per loro, anche se gli aggettivi possono cambiare. E possono cambiare anche le modalità di esercizio: si può essere assassini e fanatici barricandosi dietro una cortina di armi potenti, non diversamente da quelli che invece scelgono di legarsele al corpo con una cintura, lasciando che Sansone muoia con i filistei, piuttosto che sterminarli tutti a distanza, fumando il sigaro in uno studio ovale.

Non è che tutte le ragioni siano uguali, che tutti i valori siano uguali. Non è, come dice la critica rozza del relativismo (ma non si ha idea di quanti sofisticati pensatori vi si affidino) che tutto è indifferente, che una cosa vale l’altra, che un valore vale l’altro. Il vero relativismo, non lo spauracchio da operetta con cui si confrontano gli antropologi a corto di argomenti, non sostiene l’inesistenza o l’impraticabilità, o l’assenza di senso degli assoluti, ma piuttosto l’esistenza di assoluti relativi, validi per ciascun relativo ambito culturale, e in esso assolutamente cogenti. Personalmente sono molto affezionato ai miei valori assoluti, che non cambierei con quelli di nessun altro. Per alcuni di essi sarei disposto (forse) anche a morire, o almeno ad accettare di subire (o infliggere) una quantità ragionevole di sofferenza. La consapevolezza della loro relatività non me li rende meno cari, meno cogenti, meno assoluti nella mia vita. Dal mio punto di vista relativo sono assolutamente convinto, per esempio, che la ragione e il torto non possano mai essere divisi in parti uguali, e che qualche volta accade persino che la ragione stia tutta da una parte (per dirne una, io non accetterei mai di chiamare la Palestina – come fa Pietro salomonicamente – lo spazio israelo-palestinese).

Ma come posso pensare che solo la mia vita sia illuminata dalla luce della verità, e che tutti gli altri siano condannati all’errore? Come posso non riconoscere che il mio vicino (e a fortiori il mio lontano simile, e il mio potenziale nemico) possa averne di diversi e altrettanto assoluti, e che ami conformare ad essi la sua vita e le sue aspettative, così come accade a me?

I nemici. Ci saranno sempre i nemici. Li possiamo (qualche volta dobbiamo) combattere, e uccidere, anche, per affermare la bontà dei nostri valori, per garantirne la sopravvivenza (e la nostra, insieme a loro). Ma possiamo combattere meglio (e forse uccidere meno) non se tentiamo di capire i loro valori (impresa dagli esiti quanto mai incerti), ma se ci rendiamo conto che anche i nostri nemici, come noi, agiscono sulla base di valori, e che anche loro, come noi, non accetterebbero di vivere secondo altri valori che non siano quelli, per quanto a noi sembrino assurdi, infondati, ridicoli, malvagi.

I nostri valori

Vediamo i nostri valori come leggi, attribuiamo loro tutta l’autorità delle leggi, ci aspettiamo che diano legalità al nostro mondo. Ma qualche volta diventa necessario proteggersi, difendersi dal rigore delle leggi, dal principio primordiale dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ci deve essere comunque sempre un modo di aggirare la legge, una via laterale d’uscita, e legulei esperti in cavilli che siano in grado di far assolvere chi la infrange.

Non c’è tabù più grande di quello posto sulla vita umana. Ma tutti accettiamo da sempre che sotto certe condizioni possa essere lecito, o giusto, o inevitabile, sopprimere una vita. E’ una cosa che non sanno solo i cappellani militari, o il boia di Alcatraz, ma fa parte del nostro senso comune. Il trucco, naturalmente, sta tutto in quel ‘sotto certe condizioni’. Basta stabilire quali sono le condizioni che si possono accettare, e quelle inaccettabili, e avremo un confine entro cui trasgredire tranquillamente i nostri tabù. La guerra è un buon affare, sotto questo punto di vista, perché offre un salvacondotto onnicomprensivo rispetto alle proibizioni più cogenti. Quasi tutto quello che si fa in una guerra, ogni sopruso, ogni strazio, ogni tortura, ogni strage diventa in una certa misura accettabile e legittimo, perché la guerra è un valore così totalitario che relativizza a se stessa tutti gli altri. Allora – con il cuore che sanguina – si può ammettere di poter torturare (sotto certe condizioni), colpire per sbaglio civili innocenti, colpire con premeditazione civili innocenti (quando sia strettamente necessario), arrostire mezzo milione di giapponesi con una bomba atomica, ecc. ecc. Perché è così che si fa: la guerra si fa con le torture, con il dolore, con la morte parossistica, con il terrore, senza nessuna regola. Abu Ghraib e Guantanamo non sono eccezioni, degenerazioni. Sono il nostro modo di sgozzare con il coltellaccio, per arrivare lì dove non arriva la bomba intelligente, o la missione chirurgica.

In questo contesto un altro principio che sembrerebbe marginale si dimostra invece fondamentale: entrambi i contendenti devono indossare una divisa riconoscibile, ed entrambi ricorrere allo stesso tipo di armi. Vanno benissimo i carri armati, fucili con la baionetta, bombe di tutti i tipi, portaerei, satelliti spia, bombardieri atomici, parecchi tipi di gas. Tutti bene. Chi li possiede può partecipare alla guerra, essere accreditato come un combattente regolare. Ma se non ti puoi permettere questo tipo di armi, è meglio che ti tenga alla larga dalla guerra. E’ meglio, per dirlo con parole chiare, che tu ti sottometta direttamente, come se la guerra l’avessi già persa. Se non vorrai accettare questa condizione, e pensi di farti saltare in aria in una gelateria sul lungomare, o in una metropolitana, o rapire qualche innocente giornalista, sei solo un terrorista. Parola terribile: letteralmente: uno che semina terrore, a differenza dei bombardieri e dei tank, che invece suscitano tenerezza e allegria. E se sei un terrorista, sarò comunque costretto a combatterti, ma questa volta anch’io sarò un po’ più lasco nelle mie regole. Sarò costretto a torturarti, a sbatterti in galera senza garanzie, a ucciderti subito, senza lasciarti neanche parlare, a radere al suolo la casa dei tuoi familiari, a spezzarti le braccia, e umiliarti, ecc. ecc.

Sei un terrorista, soprattutto, perché te la prendi con vittime innocenti, e con i civili. Certo, anche io, con la mia guerra regolare, faccio vittime innocenti, forse cento o più volte di quanto ne faccia tu nelle gelaterie e nelle metropolitane. Per venire a prendere te nei tuoi introvabili nascondigli, mi sentirò autorizzato a radere al suolo il quartiere dove ti nascondi, ad assediarlo togliendo a migliaia di civili ogni mezzo di sussistenza, ad imbottire di mine le tue strade, a lasciar morire per embargo i tuoi torpidi concittadini che non si decidono a liberarsi di te. Per scoprire le tue armi proibite potrò seminare morte e terrore con le mie armi certificate. Ma tu sei un terrorista, e se sei un terrorista, in fondo, te la sei cercata, e se la sono cercata i tuoi familiari, i tuoi vicini di casa, i tuoi connazionali.

Ma noi non odiamo solo i terroristi. Aborriamo, per esempio, anche i popoli che vorrebbero praticare la pulizia etnica. Ma non tutti allo stesso modo. Alcuni di questi ci piace bombardarli, ad altri preferiamo rivolgere un invito educato a non esagerare. Anche qui vige la regola delle ‘certe condizioni’. Abbiamo fatto a pezzi i serbi per difendere i Kossovari, ma abbiamo lasciato senza battere ciglio che i kossovari facessero a loro volta a pezzi quello che restava dei serbi. Processiamo Milosevic come un criminale di guerra, ma invitiamo alla nostra tavola, con tutti gli onori, il macellaio di Sabra e Chatila. Abbiamo esaltato come un eroe del nostro secolo lo studente cinese che fermò i carri armati sulla piazza Tien an Men, ma consideriamo gli adolescenti palestinesi che combattono a sassate i tank israeliani, al meglio, come illusi, se non come fastidiosi fanatici che non si vogliono rassegnare realisticamente al destino che il mondo libero ha riservato per loro.

Il nostro senso universale di giustizia è molto tollerante con i nostri propri comportamenti e con quelli dei nostri amici e compari, ma possiamo ragionevolmente sperare che la stessa tolleranza sia condivisa da quelli che ne fanno le spese?

Cuius regio, eius religio

Cuius regio, eius religio: la saggezza degli antichi. Purtroppo è facile essere tolleranti con una religio, finchè la sua regio se ne sta tranquilla laggiù, a distanza di sicurezza. Ma a differenza delle religiones, le regiones hanno la fastidiosa tendenza, soprattutto di questi tempi, a mutare continuamente i propri confini, l’una a danno dell’altra, essendo lo spazio disponibile sempre lo stesso. In particolare, la regio dell’occidente, indipendentemente dai confini delle carte geografiche, ha finito per espandersi indefinitamente, e per espandere indefinitamente la portata della sua religio, e si è determinato di fatto un problema per la sopravvivenza delle altre religiones, quando non anche molto concreti problemi di sopravvivenza tout court per i relativi credenti.

Il conflitto diventa allora inevitabile: è una lotta per la sopravvivenza che non può conoscere mezze misure o sincretismi. E’ solo un’illusione, un wishful thinking, una stucchevole ipocrisia l’idea che le culture, e le etnie, possano procedere mano nella mano, imparando l’una dall’altra in un clima di conciliazione e di reciproco rispetto, cantando a turno i rispettivi inni sacri, ognuna indossando il suo costume tradizionale, come nei sussidiari delle elementari, senza che i loro rapporti siano condizionati dalla molto concreta contabilità del dare e dell’avere culturale, degli interessi reali dei popoli e della loro affezione ai propri valori.

L’occidente è diverso, certo. Lo riteniamo diverso intanto perché in quanto occidentali siamo in grado di apprezzare quel tipo di diversità (come naturalmente ogni cultura fa per la sua propria diversità). Ma è anche diverso, oggi, a causa della sua incomparabile, spropositata potenza, che si accompagna ad una altrettanto terribile fragilità. Noi conosciamo bene questa diversità, e la conoscono altrettanto bene i nostri nemici, che hanno imparato col tempo a sperimentare la nostra potenza, e stanno imparando ora a colpire la nostra fragilità.

Questa consapevolezza ci obbliga ad una responsabilità. Ma ancora, non necessariamente, non prioritariamente ad una responsabilità etica, che individui un dovere altruistico. E’ innanzitutto una responsabilità verso noi stessi. La supremazia di potere che abbiamo conquistato nei secoli non ci impone il rispetto degli altri come valore morale. Ce lo impone essenzialmente come condizione ormai indispensabile di stabilità del sistema che abbiamo costruito, per la semplice ragione che l’equilibrio del sistema di cui siamo padroni è ora minacciato dalla sproporzione intollerabile del nostro dominio, e che la moderazione non è più tanto una virtù, quanto una strategia irrinunciabile per proteggerlo.

E’ per questo che la scelta di fare la guerra è stata una scelta sbagliata. Non voglio dire che sia stata una scelta amorale, o ingiusta (questo lo penso io, ma non lo pensavano, forse (forse) quelli che hanno deciso di farla, e di sicuro non lo pensano quelli che l’hanno approvata). Sarei ingenuo se credessi di poter convincere queste persone che la loro guerra è amorale e ingiusta, convincerli cioè della bontà dei miei valori. Anche con i valori si dovrebbe usare il rasoio di Occam: se non possiamo condividere gli stessi principi etici, forse potremo trovarci d’accordo sulla misura della ragionevolezza e utilità di una guerra come questa, condividere una logica, piuttosto che un ideale (pur sapendo che anche la logica è un valore, e di quelli più a rischio in caso di guerra).

Posso sperare, così, di trovare un punto di incontro con i miei interlocutori sui parametri per valutare l’efficacia della guerra, o la corrispondenza tra gli esiti reali e gli intenti proclamati. E argomentare, con qualche speranza in più di farmi capire, che è stata sbagliata perché ha preteso ingenuamente (o stupidamente, o furbescamente) di compensare con un atto di forza una situazione ben diversamente complessa di squilibrio, ed ha rovinosamente sbagliato nell’individuare i suoi nemici. E’ stata sbagliata cioè perché ha contraddetto alla sua stessa logica, ai suoi principi, ai suoi intenti, e ha prodotto risultati opposti a quelli che si era ripromessa di raggiungere (ammesso naturalmente che fossero davvero quelli dichiarati).

Quello che mi sento di criticare innanzitutto della guerra americana è la sua inefficacia. Non la sua ingiustizia, la sopraffazione, la violenza parossistica, non la sua crudeltà, non la sua odiosa pretesa imperiale, non tutte quelle cose disgustose che mi ripugnano in questa guerra, e che contraddicono e feriscono i miei valori. Quello che non posso accettare è che questa guerra non produca risultati. Che dimostri così vistosamente la sua inadeguatezza rispetto ai fini che si è prefissa, ed ai costi morali che si è assunta. Che sia diventata – come prevedibile – non la cura, ma ormai la causa principale della nostra insicurezza e della nostra angoscia per il futuro. Non pretendo che gli americani realizzino la democrazia in medio oriente (tutti sanno che non lo vogliono davvero e non lo faranno mai), e non mi interessa, e non credo di volere che lo facciano. Mi aspetto però che gli americani e chi li sostiene garantiscano (oltre alla loro) anche la mia sicurezza e quella della mia famiglia. Il mio cuore di sinistra sanguinerà un poco se per fare questo gli americani dovessero fare del male agli arabi, ma del resto è quello che noi occidentali abbiamo sempre fatto con gli arabi nell’ultimo secolo, e per secoli ad una quantità di altri popoli. Non è stato così con gli indios, gli indiani d’America, gli indiani dell’India, con i maori, con tutti senza eccezione gli africani? Cattivi. Eccome se siamo stati cattivi! Ma per fortuna gli indiani, e i maori, e gli aborigeni australiani, e i dannati dell’Africa non hanno imparato a farsi saltare con la dinamite nelle metropolitane, o non avevano metropolitane dove farsi saltare, e tutto è andato per il verso giusto. Ora si contentano di premere alle nostre porte, a spingere alle frontiere con la sola forza della moltitudine, e anche questo ci costerà qualcosa.

Questa guerra non li terrà lontani, li spingerà anzi sempre più verso di noi, sempre più contro di noi.

La guerra giusta è un ossimoro. Esistono guerre che qualche volta, e sotto certe condizioni, possono essere utili, o inevitabili, o servire a uno scopo, essere il male minore. Non è questo il caso. Ma gli argomenti pacifisti non sono abbastanza efficaci per dimostrarlo. Il pacifismo come ideologia è altrettanto vacuo, fondamentalista ed ipocrita del suo opposto, come tutte le ideologie, appunto.

L’ipocrisia qui sta nell’assumere una visione ecumenica di fratellanza che è falsa dall’inizio alla fine. Una illusione di comunicabilità, di convivenza pacifica, di universalità del bene, di naturale socievolezza delle etnie e dei popoli che non è mai esistita se non nei compitini degli antropologi politicamente corretti, e nelle favole che si raccontano ai bambini per farli addormentare.

E’ il conflitto, il sangue, la morte, la sopraffazione che hanno sempre funzionato, e funzionano perché servono a qualcosa, hanno uno scopo, una dinamica, una logica, una inerzia terribile ed inevitabile.

Il problema è che oggi l’impazzimento occidentale ha reso pazzo il sistema della guerra, e da modalità fisiologica delle relazioni interetniche ne ha fatto l’unico linguaggio praticabile, un linguaggio totalitario troppo facile da somministrare avendo alle spalle carri armati invulnerabili e bombardieri invisibili, e davanti moltitudini di barbari male in arnese.

E’ questo che produce un senso generalizzato, incurabile di disperazione e di ingiustizia.

Omeostasi

L’ingiustizia: reagiamo all’ingiustizia perché sentiamo violato, offeso un imperativo morale. Ma non è solo questo. Non è soprattutto questo. Perché quella che noi chiamiamo giustizia – che altri chiamano utu, dike, voor, drast – è essenzialmente un principio intrinseco di equilibrio, un valore termodinamico che ha a che fare più con la biofisica che con i sentimenti e con l’etica. Se la natura ha orrore del vuoto, le culture aborrono lo squilibrio. E’ per questo che l’ingiustizia si paga, e si paga anche a distanza di centinaia di anni. E’ per questo che le colpe dei padri ricadono sui figli. Perché ogni ingiustizia compromette la bilancia sensibile dei campi di forza, inserisce una frattura nella continuità e nella stabilità delle energie locali, impone un salto nella natura delle culture che non ammette salti.

E’ la morte che fa la differenza. La morte che dissolve permanentemente ogni equilibrio, che giustifica qualunque vendetta. E’ la mimesi reciprocante della morte – come dice con la solita sofisticata ovvietà Rene Girard – che finisce inevitabilmente per produrre una spirale crescente di violenza e ritorsioni. Alla morte non si può che rispondere con la morte. Al di là del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. La morte produce una mutilazione che chiede di essere risarcita ad un prezzo equivalente: chi dà la morte sarà ripagato, se e non appena possibile, con la morte.

Ma è appunto quello che l’occidente, oggi, non può fare, quello che non può permettersi di fare, proprio perché le energie di cui dispone sono esorbitanti, e ogni sua vendetta, ogni cieco tentativo di ristabilire col sangue l’equilibrio perduto apre un ciclo inarrestabile di reazioni che non possono essere sostenute senza che ne escano danneggiate permanentemente le condizioni stesse della nostra esistenza. Non quando la vita quotidiana di ognuno di noi può essere devastata da pochi chilogrammi di tritolo in una metropolitana a mille miglia da casa nostra.

La morte produce un danno. Si può discutere in eterno su come siano stati cattivi gli occidentali nell’impossessarsi del mondo. Ma questo non ha importanza. Chiunque si fosse impossessato del mondo sarebbe stato altrettanto malvagio, e noi occidentali non possiamo che rallegrarci di aver avuto la meglio alle porte di Vienna, o a Poitiers, a Kartoum o a Tenochtitlan a suo tempo. Ha importanza però avere consapevolezza che questo processo ha prodotto un danno, ed il danno prima o poi chiede di essere compensato. Chi l’ha subito, magari venti generazioni dopo, cercherà in qualche modo (in tutti i modi) di ottenere il suo risarcimento.

Nella modernità il dominio occidentale aveva imposto una condizione temporanea di equilibrio alle tensioni tra le culture, assestando le dinamiche interculturali su un livello di stabilità omeostatica garantito dalla sua inarrivabile superiorità tecnologica ed energetica.

Ma c’è una soglia critica oltre la quale non conviene, non è saggio spingere il proprio vantaggio, l’estensione del proprio dominio. Non si può vivere per secoli comprimendo le condizioni di vita dell’altro; non senza offrire qualcosa in cambio. E non perché sia immorale, ma perché non funzionerà. Non è necessario sentirsi in colpa. Forse non ha neanche senso. Il conflitto e la sopraffazione, insieme con la morte, la tortura, gli stupri, gli strazi, gli sgozzamenti col coltellaccio stanno tutti nel palinsesto dei rapporti tra le culture. Si vince o si perde. Ma conviene a chi vince di adottare strategie sensate perchè le sue vittorie non conoscano soste, perché il suo dominio sia duraturo. C’è una necessità di condivisione, di ragionevole compensazione che non ha niente a che vedere con la carità o con il risarcimento. Siamo arrivati al punto in cui l’occidente deve decidersi a risarcire quelli che ha stuprato non perchè sia giusto farlo, ma perché ormai questo è l’unico modo per tenerli a bada. Non perchè è etico, non perchè e doveroso, ma perché è conveniente, perché è indispensabile

Bisogna venire a patti, perchè i nostri nemici (per quanta simpatia possa avere per loro, per quanta pietà, comprensione, amore possa avere per loro, loro sono i miei nemici, non ci posso fare niente, per il semplice fatto che io sono il loro nemico) hanno armi altrettanto potenti delle nostre – più potenti, forse – anche se di un genere diverso, ed hanno in più dalla loro l’aver superato la soglia dell’interesse alla propria sopravvivenza. Davvero vogliamo credere che i kamikaze si fanno esplodere perchè sognano le ventiquattro vergini del paradiso coranico, o perchè qualche malvagio sceicco capitalista, o qualche fanatico imam li plagia o compra le loro famiglie, o paga per l’educazione dei loro figli?

Certo non sono i disperati delle baraccopoli che si fanno saltare. Non sempre, almeno, e non certo guidando aerei contro i grattacieli. Ma questo non ha importanza. Sarebbe ingenuo cercare una linearità così banale in questo scenario complesso di azioni e reazioni, di debiti e crediti storici e culturali vecchi di secoli, di sangue sedimentato e di ingiustizie, di contrasti voraginosi nelle condizioni di vita. Non fa differenza se sono i ricchi sceicchi a finanziare i kamikaze, per i propri interessi, o se è solo fanatismo religioso quello che li spinge, o il desiderio di vendicare un fratello, un figlio assassinato: è lo scenario che conta, l’intreccio insuperabile di interessi, credenze, sofferenze individuali, fanatismi, ingiustizie occidentali ed orientali, di sangue mai redento, di famiglie straziate. In questa contabilità, è soltanto la somma finale che ha la sua terribile evidenza, un significato inequivocabile.

Dobbiamo venire a patti, allora. Se quei poveri pezzenti dei palestinesi che vivono da quaranta anni nelle tende ai margini della loro terra occupata stessero buoni e calmi, o si sterminassero tra di loro, o si lasciassero disciplinatamente morire di fame come tutti quei disperati in Africa, senza venirsene a casa mia a far saltare le gelaterie sul lungomare, i miei grattacieli e le mie metropolitane – o senza che qualcuno decida di farlo con la scusa della loro sofferenza – continuerei a piangere sinceramente per loro, la mattina presto, mentre sorbisco il mio cappuccino caldo con croissant, come ho fatto per i curdi, per gli africani, come altri hanno fatto prima di me per gli ebrei, per gli armeni. E poi continuerei – com’è giusto – ad occuparmi dei casi miei.

Quello che oggi rende tutto diverso – più preoccupante, e pericoloso, e angoscioso – è la spaventosa contiguità dei nostri mondi rispettivi. Alziamo gli occhi dal telescopio, e ce li vediamo davanti, i nostri nemici, i barbari, a grandezza naturale. E non è una vista piacevole.

Che cosa ho fatto per meritare tutto questo?

Siamo davvero così ingenui – o ipocriti – da non vedere come il nostro benessere, le condizioni stesse di esercizio della nostra vita quotidiana, la possibilità stessa di coltivare i nostri valori nascono dalla sofferenza altrui, dalla rinuncia che gli altri hanno dovuto fare alle cose che noi abbiamo avuto, che noi ci siamo presi? Non so, non credo che dovrei sentirmi in colpa per questo. Non l’ho fatto io questo mondo. Non c’ero, io, quando tutte queste brutte cose sono accadute. Sono condannato a raccoglierne i frutti, e non potrei fare diversamente. Lo dice bene il poeta:

chi è disposto ad affrontare la disperata catabasi nel ringhio dell’abisso che sempre giace sotto il nostro allegro picnic nella brughiera del dilettevole, dove ci sdraiamo, avendo già deciso ciò che non chiederemo, miti, scaldati dal sole, assuefatti alla luce della menzogna accettata” (ancora Auden: il cuore fino dei poeti arriva molto più in là, e prima, dei cervelli ben temperati degli antropologi e degli scienziati in genere).

E’ per questo che non sono affatto d’accordo con Pietro quando dice che il nostro rischia di divenire un mondo opulento e blindato. Il nostro è un mondo opulento e blindato, lo è sempre stato. Il rischio, oggi, è proprio del contrario: che non sia più abbastanza opulento, e abbastanza blindato. E questo fa paura, vero?

E’ solo un’illusione infantile l’idea che il nostro giardino di principi felici possa espandersi indefinitamente, e che solo l’ignoranza, la pazzia, la stoltezza degli altri – o la malvagità di alcuni dei nostri per la quale ci rifiutiamo di assumere responsabilità – abbia impedito e ancora impedisca loro di diventare come noi, l’ingenuo e confortante accecamento sul dato di fatto incontrovertibile che la nostra felicità, il nostro benessere, il nostro sistema di vita si reggano su un debito infame e spropositato di sangue, di morte e di sofferenza.

Ci piace mangiare la nostra bistecca allegramente seduti al tavolo del ristorante, ma non vogliamo pensare alla sofferenza della vacca, a ciascuna delle fasi durante le quali è stata ingrassata forzosamente, e poi sanguinosamente soppressa, squartata, eviscerata, fatta a pezzi, da uomini con un coltellaccio tra le mani e il grembiule sporco di sangue. Ci rifiutiamo vedere l’animale nella bistecca, ci rifiutiamo di vedere il macellaio, e rifiutiamo di riconoscere il debito che abbiamo contratto con uno come lui, che non inviteremmo mai alla nostra tavola. D’altra parte non accetteremmo di nutrirci staccando a morsi la carne dal corpo vivo dell’animale. Ma a conti fatti siamo solo noi che poniamo in valore questa differenza, e agli atti pratici, crudamente biologici, non c’è molta differenza (non ce n’è alcuna) tra il sussiegoso gourmet seduto al tavolo del Ritz, e la iena della savana che si guadagna senza ipocrisie la propria colazione.

Uno, nessuno e centomila

Senza ipocrisie. Piangiamo la ragazzina di Tel Aviv che viene fatta a pezzi sul lungomare mentre mangia il suo gelato, e allo stesso modo soffriamo per il piccolo pezzente della tendopoli palestinese ucciso (per errore!) dai militari israeliani. Ma proprio allo stesso modo? In realtà quella ragazzina è troppo simile a nostro figlio, con le sue scarpe di marca identiche alle nostre, con il portatile e le cuffie alle orecchie. Veste come lui, ascolta la stessa musica, si aspetta dal mondo le stesse cose. Nella sua morte vediamo morire qualcosa anche di nostro figlio. L’altro è solo un poveraccio, uno dei tanti che abbiamo imparato a compiangere nelle parrocchie e sui banchi delle elementari, con un misto di compassione e retorica. Quella morte, quel tipo di morte sta nel conto, fa parte del suo destino. Centinaia di migliaia di africani, milioni di asiatici, milioni e milioni, morti senza pietà, allora e ancora. Troppi, per averne pietà: la pietà occidentale ama i piccoli numeri, l’individuo, esalta e cura la sofferenza individuale. Le morti cumulative gli fanno orrore, ma l’orrore è un sentimento tutto particolare: prendiamo atto del conteggio con un senso di tiepida, torpida ripugnanza, perchè non siamo in grado di rappresentarcene davvero l’enormità. Un milione di persone morte, di africani morti, non sono come un milione di individui, uno per uno i nostri vicini di casa. Per questo tremila americani andati a fuoco in un grattacielo ci hanno sconvolto, perchè in quel caso abbiamo dovuto moltiplicare per tremila il nostro dolore, la nostra individuale pietà, e soprattutto le nostre paure private. Sono tremila Frank, Alan, Rose, Valerio, Pietro, ognuno con la sua faccia, ognuno con la sua storia, come noi, come ciascuno di noi. Come ciascuno di noi che potrebbe trovarsi nelle stesse circostanze. Non come quella montagna indistinta di cadaveri neri che ingombra tutta l’Africa, non come la massa sterminata di morti che la nostra civiltà si lascia dietro da sempre. Quelli si possono contare solo tutti assieme: massa, appunto. Ci commuovono, ci fanno pena, la loro sorte ci fa indignare, ma pazienza. Stasera dormiremo tranquilli, come ieri, come il giorno prima. Non siamo stati noi, e prima o poi faremo qualcosa; di sicuro, faremo qualcosa.

Ma tutto questo ha una sua tragica naturalezza. E’ così che vanno le cose: ogni cultura riconosce solo il proprio simile, gli altri sono comunque inumani, o comunque meno umani. Non c’è niente di cui dovremo scandalizzarci. La sorte ci ha riservato di stare dalla parte di chi ha vinto, noi abbiamo solo ereditato una fortuna accumulata con mezzi equivoci. Ma quello che è stato è stato, e comunque è certo che i nostri nemici non si sarebbero comportati diversamente da noi, nelle stesse circostanze.

Perplessità essenziali

Resta da vedere cosa è possibile fare in uno scenario del genere. Che cosa possono fare gli antropologi, come chiede Pietro. Una domanda impegnativa, ma anche ambigua. Non si capisce se ci può essere qualcosa che gli antropologi possono fare proprio in quanto antropologi, in quanto amministratori di una conoscenza specifica che può essere utilizzata per comprendere la sostanza di questa guerra – o addirittura per difendersene – oppure se si chiede loro di fare qualcosa come lo chiederemmo ai professori di storia antica, o ai dentisti, agli idraulici, qualcosa che li riguarda come uomini, come parte in gioco, come portatori di interessi.

Pietro sembrerebbe – com’è ovvio – interessato alla prima di queste opzioni, ma le sue domande, subito dopo, i suoi interrogativi, sembrano soprattutto riguardare la seconda.

Il classico dubbio dei chierici, com’è riassunto nella presentazione dei seminari: “che ne è del confine tra scienza e politica, fra l’istanza, cioè, di una conoscenza criticamente distaccata e quella di una partecipazione attiva e militante al corso degli eventi?”

Bella domanda. Una volta sapevamo come rispondere, vero Pietro? Tutti quei discorsi sulla non-neutralità della scienza, il posto degli intellettuali, la “battaglia delle idee”. Allora sì che avevamo idee chiare da mandare in battaglia, e alcune hanno fatto egregiamente il loro dovere.

Ora invece quello che prevale è il dubbio e l’incertezza, ed è questo soprattutto che ci sgomenta.

La lettera di Pietro pullula di espressioni di dubbio e di incertezza: “incredibile”,“brancolo nel buio”, “vedo nero”, “innominabile pantano”, “incomprensibile intreccio”, “evento inimmaginabile”, “non so bene come”, ecc.

Tutto il suo testo è intessuto di sconcerto e di amarezza, di ansia, e a poco vale, mi pare, quell’invito finale ad essere “più problematici”, ad usare una “grande fantasia ed audacia di pensiero”. Messo lì dove si trova, suona più come un fervorino consolatorio per non finire in tristezza, qualcosa che in mancanza di meglio ha dovuto prendere il posto di una ormai impraticabile proposta di metodo scientifico.

La chiave di questo sta in quel “faccio parte di una generazione che ha peccato di dogmatismo e semplificazione”. Un peccato: è un modo di dire, certo, ma rivelatore. Sembra che dobbiamo pentirci di qualcosa, vero? Certo, se il mondo va così, in questo momento, siamo noi che abbiamo perso (qualsiasi cosa si intenda con questo ‘noi’). Ma abbiamo perso perché eravamo dogmatici e semplificatori? E abbiamo perso perché i nostri nemici hanno saputo essere problematici e laici? I carri armati, le portaerei: sono queste le cose più dogmatiche e semplificatrici che conosco.

Non sarei così severo con il nostro passato: il dogmatismo e la semplificazione di allora erano la forma che aveva preso il nostro impegno, la nostra voglia di combattere, la ragione per cui abbiamo amato la nostra vita, e vi abbiamo riconosciuto un senso, ed ora invece ci sentiamo persi ed imbelli, e pretendiamo di lenire questa sofferenza ontologica con una risanatrice onnipotenza conoscitiva che deve pur essere da qualche parte, una conoscenza che pure perseguiamo, ancora una volta, con dogmatismo e con semplificazione.

La storia, anche quella buona, anche quella in cui ci riconosciamo, l’ha fatta gente che non ha avuto paura di semplificare, davanti a scelte che andavano fatte. Quelli che la sapevano lunga, quelli che non seguivano dogmi, quelli che non semplificavano, quelli che volevano capire hanno continuato ad interrogarsi per tutto il tempo con i piedi al caldo nelle loro ciabatte, mentre qualcun altro faceva il lavoro per conto loro.

Caro Pietro, non saprei davvero dove tracciare quel confine che si diceva, quella tranquillizzante linea retta “fra l’istanza di una conoscenza criticamente distaccata e quella di una partecipazione attiva e militante al corso degli eventi”. Sono stanco, molto stanco e incattivito. In queste condizioni la mia fantasia si è inaridita, per non parlare dell’audacia di pensiero.

In queste condizioni anch’io, come te, provo “disagio verso un’esperienza dell’alterità che si faccia dedizione e rischio di vita” (anche se temo che sia il disagio di chi viene messo davanti alle proprie paure ed alla propria viltà).

In queste condizioni, immagina, non mi sento neanche di condannare quelli che scelgono di tagliare il nodo con la spada, e mettono in gioco la propria vita con una esplosione semplificatrice.

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