Un Sogno Fecondo

Edmondo era un giovane dal bell’aspetto sempre molto curato che viveva tranquillamente la sua situazione adolescenziale. Non aveva particolari problemi nei rapporti con i suoi coetanei ed inoltre aveva un rendimento scolastico elevato. Un pomeriggio una ragazza del gruppo che frequentava introdusse il sogno come argomento di cui parlare e lei confessò che “sogno molto di rado ma quando lo faccio li ricordo perfettamente anche per molti giorni”.
-Io invece sogno spesso ma purtroppo me li scordo- affermò Edmondo rivolgendosi al gruppo.
L’ argomento al momento non ebbe alcun seguito, ma quando egli una volta fece un sogno gli tornarono a mente le parole della sua amica e pertanto lo trascrisse in maniera puntuale, con una scrittura minuta e spigolosa senza mettere i punti sulle i e la stanghetta alle t, conservandolo poi in un album insieme a delle fotografie che custodiva in un angolo del solaio. Quel luogo sarebbe dovuto diventare la sua mansarda, ma questo progetto, nonostante le promesse del padre, rimase un suo desiderio.

Dopo la prima descrizione, cambiò qualcosa in lui come se la scrittura avesse stimolato altri sogni e ciò che era stato casuale diventò più ricorrente.
Sembrava soddisfatto quando finiva questo suo impegno, come dimostravano le sue accurate e minuziose descrizioni, lasciandosi andare un giorno ad un “il mio cervello lavora molto anche la notte”.
Tra i sogni che lui aveva descritto, però ce n’era uno che si ripeteva in maniera precisa, riproponendo immagini e situazioni identiche anche nella collocazione degli oggetti, nelle scene che sognava tranne un’eccezione: la figura femminile vestiva sempre in maniera diversa ma allargando le braccia gli ripeteva sempre la stessa domanda: “ciao come stai ? Sei proprio un bel figliolo!” .
Dopo la terza volta che visse questo sogno, cominciò a preoccuparsi e quando volle rileggere i suoi appunti onirici riscontrò inquietanti identità. Ne avrebbe voluto parlarne con qualcuno però aveva il timore di essere deriso ed inoltre, pensando a suo padre, preferì tacere. Con questo recondito rovello riuscì a convivere ma inevitabilmente cominciò a scavare nel suo passato fino a ricordare vagamente quando suo padre, all’età di sei anni, gli comunicò baciandolo, dopo averlo stretto a sé, “la mamma è andata in cielo”. Edmondo proruppe nell’immediato in un pianto disperato e per un periodo diventò malinconico e scontroso.

Tutto ciò convinse suo padre ad aspettare del tempo prima di presentargli, una sera a cena, una donna che descrisse come “la tata Mirella che provvederà a te”.
Non è che quel frangente lo ricordasse nitidamente, ma lo aveva acquisito perché di tanto in tanto suo padre glielo ricordava. Un dopo-pranzo pomeriggio, terminato proficuamente l’anno scolastico come risultava dagli scrutini, volle concedersi un pomeriggio in piena libertà, senza aggregarsi alla sua abituale cerchia di amicizie.
Scelse di andare in un bar prospiciente la spiaggia, già frequentata dalla tarda primavera in poi, in maniera da vedere il mare che brulicava di bagnanti dall’alto della veranda. Scelto il posto dove posizionarsi e girandosi vide una persona che lo colpì:
-Eppure quella persona l’ho vista da qualche parte- si domandò cominciando a pensare.

Nel tentativo di rintracciare nella sua mente quel volto, Edmondo si girò più di una volta fino a che riuscì a fissare il suo sguardo verso di lei che gli sorrise amabilmente.

Contraccambiò ma rimase perplesso continuando a chiedersi “eppure non mi è volto nuovo”.
In quel momento passò un cameriere e lui ordinando una birra cominciò ad osservare la spiaggia.
Da lì seguì dei giovani che giocavano a palla a volo sulla sabbia, il bagnino che instancabile si muoveva tra gli ombrelloni, i bagnanti che continuavano a tuffarsi nel mare, insieme ai bambini con il salva-gente mentre altri erano intenti a rimirare il loro castello di sabbia distrutto da uno escluso dal gioco. Nonostante fosse piacevolmente distratto da tutto ciò, improvvisamente impallidì.
-Ho capito chi è quella donna; è quella che io sogno- pensò e quando casualmente si voltò la vide seduta alcuni tavoli più indietro.
Stava fumando e leggeva un giornale dando di tanto in tanto un sorso al suo succo di frutta e così Edmondo ne approfittò per osservarla.

Aveva un aspetto mite e gentile e la sua postura era molto composta e curata come la sua capigliatura bionda che, mostrando una discriminatura nel mezzo della testa, terminava sulle spalle.
Indossava un completo beige di cotone leggero ed un foulard intorno al collo, e sul tavolo lui notò un’ ampia borsa costellata da decalcomanie di personaggi fiabeschi noti.
Volle insistere nella sua indagine però improvvisamente la donna, alzando lo sguardo dal giornale, intercettò quello di Edmondo facendogli un sorriso spontaneo.
Lui contraccambiò e volgendosi verso il mare pose fine ai suoi propositi indagatori. Terminata la birra controllò l’orario sul cellulare e pensò di riprendere la via di casa. Quando si alzò vide che la signora si stava allontanando ma aveva lasciato la borsa sul tavolo.
Subito egli afferrò la borsa e la chiamò sventolandola ma lei non si voltò. Cercò di raggiungerla e di corsa gridando le si affiancò ansi­mando:

-Signora, signora si fermi- .
-Dimmi figliolo- disse lei voltandosi con un sorriso radioso.
-Signora, ha lasciato la borsa- spiegò Edmondo.
-Io non a-ve-vo una bor-sa- puntualizzò flemmatica la donna che in quel momento perse il suo sorriso accattivante ed i suoi occhi azzurri diventarono di ghiaccio.
Edmondo si avvicinò a lei ed impappinato rimase con la borsa in mano. In quel momento notò come lei mostrasse un pallore mortale e quando si tolse lentamente il foulard scorse, nel collo rugoso, due cicatrici all’altezza dell’esofago. Nel seguire quel lento movimento vide come le mani fossero avvizzite e le dita parevano artigli procurandogli un istintivo ribrezzo.

-Come ti chiami figliolo? – chiese lei con tono distaccato.
-Edmondo- rispose lui turbato.
-Bellissimo! È veramente un bel nome- commentò la donna.

Con un “mi scusi” confuso, lui salutando portò la borsa al commesso del bar dicendogli che l’aveva trovata su un tavolo.
Nel tornare a casa ripensò a tutto quanto aveva vissuto e quell’ultimo incontro ravvicinato lo rese inquieto.

-A distanza di pochi metri sembrava molto diversa e poi quelle cicatrici sono davvero ripugnanti- rimuginò strada facendo.
La notte seguente lui fece lo stesso sogno e la stessa donna aprendo le braccia gli si fece incontro con un sorriso radioso e, dicendogli “come stai Edmondo?”, cercò di abbracciarlo. Lui restò immobile e lei facendo alcuni passi gli giunse a ridosso ma invece di abbracciarlo si tolse il foulard: dalle cicatrici cominciò a sgorgare del sangue e lui lanciò un urlo e di soprassalto si svegliò.

Sudato accese la luce e, guardandosi attorno, cominciò a respirare a fatica. Con quelle immagini raccapriccianti scolpite nella sua mente rimase seduto sul letto mentre fuori cominciava ad albeggiare.
Cercò di riprendere sonno però riuscì solo ad assopirsi prolungando uno stato di dormiveglia che si protrasse fino a che in casa si cominciarono a sentire i primi pesticcii, la conversazione dei suoi genitori, la televisione accesa, l’aspirapolvere in funzione e l’imman­cabile aroma di caffè; lui si rimise nel letto fingendosi addormentato. Tornato il silenzio in casa si alzò e prima di fare colazione volle andare in bagno per farsi una doccia e la barba. Davanti allo specchio oltre a sistemarsi i suoi capelli castani come i suoi occhi, si massaggiò a lungo le guance con il dopobarba prima di andare nel solaio per aggiornare i suoi appunti onirici.
Questo luogo, dal tetto spiovente e finestrato, seppur non attrezzato era diventato nel corso degli anni una sorta di suo esclusivo dominio. Dal nonno materno aveva ereditato tanti giochi di gruppo ed una serie di soldatini contenuti in due grandi scatole con cui scegliendo delle sagome diverse riusciva a trastullarsi. Fin da piccolo quando il padre aveva degli impegni lo portava in quel luogo dicendogli di non scendere e lui dopo aver fatto i compiti, si sbizzarriva a giocare da solo.

Districandosi tra un cumulo di oggetti, una volta presa la cartella, preferì tornare in camera e rilesse tutto: del foulard non risultava in alcuna descrizione. Finita questa ricognizione pensò di riportarla al suo posto però quando cercò di aprire la porta non vi riuscì. Si munì nel frattempo di un cacciavite e di un martello nel tentativo di forzare la serratura procurandosi una lacerazione sul palmo della mano, che cominciò a sanguinare.
Andò in bagno e dopo essersi disinfettato si mise un ampio cerotto rinnovando nel contempo il suo proposito di aprire la porta cercando di togliere la maniglia; tutti i tentativi furono vani e così riportò gli appunti in camera sua senza sapere però dove poteva metterli. Passarono un paio di giorni e l’assillo di occultarli lo spinse a chiedere al padre perché la porta del solaio non si aprisse. Dopo mangiato egli volle constatare quanto gli aveva detto il figlio e tornando dopo poco in cucina disse:
-La porta l’ho trovata aperta- .
-Strano- commentò trasalendo il figlio -ho provato più di una volta ad aprirla- insistè guardando altrove.
Nel pomeriggio prima di uscire di casa pensò di riportare gli appunti nello stesso punto, ma appena cominciò a salire le scale assalito da molti pensieri si fermò dopo aver superato un paio di scalini. Si guardò attorno; la casa era vuota. Riprese a camminare e giunto al primo pianerottolo sentì dei crampi alle gambe.

-Quel solaio mi trasmette agitazione- borbottò massaggiandosi.
Finalmente giunse davanti alla porta e pervaso da un tremolio sconosciuto afferrò la maniglia, trattenendo il fiato, fino a che, con uno strappo energico, riuscì ad aprirla. Il gesto fu talmente veemente che nello slancio andò a sbattere con le spalle al muro. Tanta era la voglia di uscire quanto prima da quel luogo, che invece di andare nell’angolo più distante dalla porta per rimettere al posto abituale la cartella, la pose sotto la cassapanca adiacente alla porta.
Fatto ciò pensò di contattare degli amici per darsi appuntamento in una birreria cosa che avvenne puntuale. Le vacanze erano vicine e la comitiva prese a parlare di ciò dettagliando i propri desideri, promesse e programmi diversi.
-Tu Edmondo dove andrai? – .
-In montagna. Il mare lo vedo quando voglio. Quest’anno seguirò i miei genitori in alto Adige- .

Dopo queste parole bevve un po’ di birra e, voltandosi verso l’ingresso, vide la solita signora seduta ad un tavolo che indossava una giacca blu di lino con dei pantaloni bianchi e subito lo sguardo di Edmondo si incentrò sul collo di lei che era fasciato con un foulard a quadretti blu su un fondo bianco.
Gli sguardi si incrociarono e lei alzando il bicchiere con un sorriso accennò ad un simbolico brindisi; lui fece altrettanto attirando la curiosità degli amici che si voltarono anch’essi.
-Chi è? – chiese una ragazza.
-Una vicina di casa- rispose sbrigativamente.
La conversazione tra gli amici continuò con Edmondo che turbato apparve un po’ assente dalle chiacchiere ma non voleva assolutamente far trasparire alcun disagio.
Finita la birra si alzò adducendo il pretesto di andare in bagno e quando passò davanti alla signora fu lei che gli si rivolse amabilmente.
-Buon giorno Edmondo cosa ti sei fatto al palmo della mano? – .
-Un incidente domestico; niente di grave- .
-Anch’io una volta mi feci male nello stesso posto perché volevo aprire una cassapanca- .
Il ragazzo tacque e lei gli chiese ancora:
-Come va la tua vita? –
-Così e così- rispose lui che guardandola aggiunse -lei come si chiama? – .
-Mirella- precisò lei fissandolo gelidamente in volto.
-Grazie; ora devo andare- si giustificò imbarazzato Edmondo.
Durante il ritorno riflettendo su tutta una serie di dati e di coincidenze maturò il desiderio, seduto su una panchina, di aprire la cassa- panca.

Il padre e Mirella erano già in casa quando lui rientrò e non volendo fa conoscere il suo proposito, si mise in salotto a vedere la televisione. Il tempo di rispondere al cellulare ad una sua amica che si sdraiò sul divano.
Passò poco tempo prima di esser chiamato con un “vieni, la cena è pronta”.
Durante essa nel colloquiare con i genitori egli apparve assente perché non dette alcuna risposta a delle domande a lui rivolte.
-Tutto a posto Edmondo? – chiese Mirella -perché mi sembri sva­gato-
-Mi sono incontrato con i miei amici ed abbiamo parlato delle prossime ferie. Noi andremo in montagna, vero? – .
-Lo abbiamo detto tre mesi fa ed ho già fissato- precisò il padre.
-Va bene; non sapevo che tu avessi già fissato- replicò il figlio pri­ma di alzarsi da tavola. Appena fu possibile fece un sopralluogo nel solaio ed osservò la cassapanca provandola a spostarla; impossibile. La sua serratura con lucchetto posto dentro un occhiello, che sbucava da una cintura metallica, doveva essere forzata ed in assenza di strumenti pensò a chiamare un fabbro ma desisté dato che era una situazione strettamente personale e non voleva avere a che fare con estranei. Fu così che andò in una mesticheria e, spiegando il problema, comprò un seghetto a ferro ed un paio di lame che nascose sotto uno scatolone pieno di libri.

Il momento propizio per Edmondo arrivò il giorno seguente quando dopo un’ora di lavoro riuscì ad aprire la cassapanca. Davanti a lui apparvero cimeli di famiglia, soprammobili e molti abiti tra cui quelli che aveva visto indosso alla signora che gli compariva nel sogno e che aveva incontrato. Li tolse immediatamente dandoli una nuova sistemazione ed estrasse anche un paio di contenitori di documenti.

Aperti i lacci cominciò a visionarne il contenuto con un presagio che gli procurò trepidazione ed affanno.
Vide delle fotografie che lo ritraevano con i genitori e notò come suo padre allora avesse una capigliatura folta e riccia a differenza del presente contraddistinta da un’ incipiente calvizie. Si soffermò su una foto dove appariva con la madre che lo teneva in collo sullo sfondo di un parco giochi, ed altre che lo ritraevano su una spiaggia con una paletta in mano. Erano foto che riportavano le date sul retro per cui fu facile capirne la sequenza nel tempo e nel rimetterle a posto una si bagnò con le sue lacrime.
In ginocchio continuò questa sua ricerca di qualcosa che lo riportò indietro nel tempo. In una busta c’erano dei ritagli di giornale sottolineati e subito cominciò a leggerli; erano articoli di cronaca. Sentì i peli che si drizzarono sugli avambracci e vide la sua pelle accapponarsi però proseguì a leggere a testa bassa gli articoli ritagliati. I brividi si fecero più intensi e quando alzò la testa sbigottì: davanti a lui stava, in un cono di sole denso di pulviscolo penetrato in quel luogo grazie alla finestra sul tetto, sua madre trasparente che gli tendeva le mani.

-Finalmente Edmondo- .
Sbiancato in volto sgranò gli occhi e senti urlare alle sue spalle:
-Cosa stai facendo? – .
Era suo padre ed il figlio rimase immobile mentre sua madre portandosi vicino a lui si tolse il foulard ed il collo cominciò a san­guinare. Quella sagoma invano scacciata dal padre lentamente entrò nel corpo di Edmondo che voltandosi mostrò i suoi occhi azzurri.

Gino Benvenuti da Nero Beffardo

Nero Bizzarro : Racconti / Gino Benvenuti. Il punto rosso, 2022

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